Incontrarsi per parlare del Crocifisso di Nicodemo, sicuramente la più importante opera scultorea presente in Sardegna e conservata nel nostro San Francesco, non può non essere sempre interessante ed appassionante. Si tratta infatti di una raffigurazione che immediatamente colpisce i sensi con il suo potente quanto efficace realismo, e che, nel contempo, però cela ancora molti misteri, a cominciare dalla sua origine. Così non poteva passare inosservata la presentazione, venerdì sera al Museo “Pau”, del più recente lavoro scientifico sul nostro veneratissimo Cristo, il volume “Crocifissi dolorosi della Sardegna. Il Nicodemo di Oristano”, edito da Iskra per la sua collana “I tempi”, dedicata all’archeologia e storia dell’arte sarda. A farlo è stato lo stesso autore, Aldo Sari, docente di Arte moderna all’Ateneo sassarese, che già nell’ormai lontano 1987 aveva pubblicato un importante articolo (“Il Cristo di Nicodemo nel S. Francesco di Oristano e la diffusione del Crocifisso gotico doloroso in Sardegna”) nell’allora primo numero della rivista “Biblioteca Francescana Sarda”, di cui questo libro costituisce un aggiornamento e approfondimento. Non a caso Sari ha dedicato la sua fatica a Padre Umberto Zucca, scomparso nel luglio scorso all’età di 78 anni, che della “Biblioteca Francescana Sarda” è stato per tanti anni responsabile ed instancabile animatore. Proprio a padre Umberto sono state destinate bellissime parole da parte di Sari e degli altri relatori, il Sindaco Tendas e Padre Salvatore Sanna e da altri presenti.
Per parlare del nostro Crocifisso il docente sassarese ha scelto un percorso lungo quanto interessante, ricostruendo la storia dell’iconografia della Croce nell’Occidente cristiano, dalle origini almeno apparentemente “aniconiche” fino appunto all’affermarsi, nel tardo Medioevo, del Crocifisso gotico nelle forme del Nicodemo di S. Francesco. Il suo viaggio è iniziato con l’illustrazione di ciò che era la pena della crocifissione, già praticata agli schiavi dai Greci e dai Punici, ma portata all’estremo dai Romani, che la resero a tutti gli effetti “patibolare” (non a caso Sari ha ricordato che il “patibulum” è il tronco orizzontale della Croce, che poi veniva issato insieme al condannato sullo “stipes”). Si trattava di una morte particolarmente cruenta e dolorosa, per cui la sua raffigurazione creò da subito problemi, non soltanto di tipo teologico.
Il simbolo della Croce in quanto tale, almeno in ambito privato, si diffonde quasi subito tra i Cristiani, man mano che questi “conquistano” il mondo romano. Per esempio in una casa di Ercolano – distrutta dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d. Cr. – è stata trovata una croce incisa nel muro, che probabilmente ne conteneva una lignea, evidentemente combusta. Diverso è invece il discorso per quanto riguarda il Crocifisso, le cui prime attestazioni note – una serie di avori milanesi di fine IV-inizi V secolo – in Occidente sono molto più tarde di quelle del Medio Oriente. Al 432 d Cr. risale la Crocifissione in uno dei pannelli della porta di Santa Sabina a Roma, interessante perché per la prima volta in Occidente appare il Cristo barbuto e con lunghi capelli sciolti sulle spalle, quale quello del famoso Lenzuolo della Sindone e che in Oriente era già comune.
Ma la rappresentazione del Cristo nudo sulla croce ripugnò ancora per lungo tempo al mondo occidentale. Le cose cominciarono a cambiare soltanto dopo l’arrivo a più riprese di artisti e religiosi mediorientali, qui fuggiti per l’avvento degli Arabi (VII secolo) ma anche a motivo dell’iconoclastia che, a partire dalla metà dell’VIII secolo, esplose nell’Impero bizantino. A questo si aggiunse la necessità di contrastare efficacemente anche le “eresie”, come quella monofisita, ribadendo le due nature inseparate di Cristo, insieme “vero Dio e vero uomo” (ipostasi).
Vari continuano ad essere per diversi secoli i tipi di raffigurazione del Cristo, il quale però appare sempre “vivo”, e cioè “triumphans” innanzitutto sulla morte. Soltanto dall’XI secolo appare la Croce con il Cristo morto, soprattutto per l’influenza dottrinaria di S. Anselmo d’Aosta, di S. Bernardo e di S. Francesco d’Assisi, con la nascita e lo sviluppo degli ordini mendicanti e con la diffusione dei riti dei Misteri. I primi esempi italiani di “Christus patiens” sono pittorici (XIII sec., in particolare in alcune opere di Giunta Pisano). Ma sarà poi la scultura, con i cosiddetti “Crocifissi gotici dolorosi”, a cogliere in maniera davvero estrema questa svolta, esaltando il tema del dolore, anzi esasperandone la riproduzione fin quasi a sfiorare quello che in gergo teatrale e cinematografico oggi si direbbe “grandguignol”.
Fu il grande storico dell’arte di origine goriziana Geza de Francovich, con un fondamentale studio (“L’origine e la diffusione del Crocifisso gotico doloroso”)pubblicato nel 1938 in una rivista tedesca, a definire per primo e in maniera organica questo vero e proprio filone artistico gotico, il cui primo esempio individuò nel Cristo di S. Maria im Kapitol a Colonia (1304 per quanto riguarda le reliquie), e nel “Devot Christ” di Perpignano, nella Linguadoca-Rossiglione, databile prima del 1307, ma di artista sicuramente renano, come tanti altri esempi del genere.
De Francovich prese in grande considerazione anche il Cristo oristanese, che datò al 1320-1330, attribuendolo ad artista iberico.
Sari ha invece ribadito la sua proposta di datazione al primo quarto del XV secolo, riportando la scultura ad artista iberico, in cui si rilevano caratteristiche della coeva “corrente amanerada” catalana, influssi naturalistici fiamminghi e parallelismi con la pittura iberica di quell’epoca.
Sari ha infine accennato a quel filone “doloroso” sardo, ispirato proprio dal e al Cristo oristanese, e che ci ha lasciato tutta una serie di opere sparse da nord a sud, ma soprattutto in area cagliaritana, tanto scultoree (circa una cinquantina di Crocifissi) quanto pittoriche, quasi tutte risalenti al XVI secolo.
Chiudendo i lavori il Sindaco Tendas ha annunciato la prossima pubblicazione di un numero della “Biblioteca Francescana Sarda”, dedicato alla Chiesa di S. Chiara, ultima fatica di Padre Umberto Zucca, e ha espresso la speranza che i lavori all’ex Distretto ed ex Chiesa e Convento di S. Francesco riprendano entro quest’anno, ricordando a tal proposito la recente visita del sottosegretario Barracciu! Di S. Chiara abbiamo parlato spesso, dell’ex Distretto anche, per cui ogni ulteriore parola sarebbe di troppo. Staremo a vedere.