La scena punk italiana, segue di poco quella anglosassone, segno che nel paese della melodia e della “chanson” propriamente detta, il momento era quello giusto per proporre qualcosa che remasse decisamente contro la tradizione italica canzonettistica. I tempi erano maturi, dicevamo, perché si era nel ’77, si era nel pieno degli anni di piombo, si era nell’Italia degli scontri di via De Amicis a Milano, con la famosa foto di Giuseppe Memeo che spara ad altezza d’uomo, si era all’apice dello scontro di classe e le tensioni sociali erano altissime.
In questo panorama il punk italiano prende forma e da tutto ciò trae nutrimento ma, a differenza di quanto succedeva in Inghilterra e Stati Uniti, i cui testi dei brani erano maggiormente politicizzati, i testi del punk nostrano assumevano una connotazione più individualista e, in alcuni casi, adottando toni e sfumature tra l’ironico e il demenziale, caustici quanto efficaci per attaccare violentemente il sistema attraverso la musica.
Da noi, il genere nasce e cresce, com’era logico, nelle grandi città del nord, dove il disagio sociale era più forte, il desiderio di miglioramento delle condizioni economiche e di maggiore considerazione si faceva più pressante: Bologna e Milano in testa e, poi, via via tutte le altre, fino a coinvolgere le città del meridione, ultime ad essere interessate a questo fenomeno, anche perché – Napoli su tutte – fortemente legate ad altri generi tradizionali.
A differenza di quanto successo in America e, soprattutto, in Inghilterra, dove i gruppi punk più importanti, quelli almeno divenuti riferimento per gli altri, si erano velocemente votati al mainstream delle etichette di rango, sempre pronte a fiutare l’affare, in Italia le punk band snobbavano, coerentemente, le major (o sono state snobbate?) per restare fedeli a sé stesse e ai propri ideali e pubblicando i propri lavori con autoproduzioni limitate e, inizialmente, diffuse neglie dagli ambiti dei centri sociali. Le promozioni e la diffusione dei lavori avvenivano in maniera diretta, tramite concerti, o con la distribuzione di fanzine, riviste anch’esse autogestite e diffuse capillarmente tra i giovani che frequentavano ambienti politicamente orientati e le università. Era un modo di farsi pubblicità anomalo e molto efficace: non a caso il punk fu il primo genere musicale che fece da colonna sonora alle prime radio libere del tempo.
Come si è detto, fu il nord il primo palcoscenico delle punk band nostrane, con il movimento del ’77 che lasciò campo libero a gruppi come il Centro d’Urlo Metropolitano (in seguito Gaznevada) a Bologna, al quale si deve, probabilmente, il primo pezzo punk italiano (“Mamma, dammi la benza”) e, sempre a Bologna, i poi famosi Skiantos, i Naphta e i Confusional Quartet. Il capoluogo emiliano vide anche la nascita delle prime fanzine; le band venivano recensite sulle riviste alternative di fumetto come “Il male” e “Cannibale” e la promozione del nuovo genere fu portata avanti anche, sempre in quegli anni, da “Bologna Rock”, un festival che radunò le band migliori della scena. Da non trascurare il sottobosco milanese, con il centro sociale Santa Marta, dal quale uscirono le Kandeggina Gang di una giovanissima Jo Squillo, i Kaos Rock e i Dirty Actions e la scena di Pordenone con il Great Complotto, movimento artistico musicale indipendente dal quale uscirono gruppi come gli HitlerSS e i Tampax. Da lì in poi, fu tutto un proliferare di idee e di band e il punk fu il primo grande esempio di come la nostra cultura possa interpretare, a suo modo, un genere sorto lontano da noi, rivitalizzandolo e non solo imitandolo sciattamente come, purtroppo, è accaduto in altre occasioni.