I limiti (e i pregi) del punk, furono gli stessi che ne decretarono il mancato sviluppo. La sua coriacea struttura, la somiglianza con nessun altro genere, l’unicità e l’estremizzazione, non lo resero incline a sviluppi ulteriori… o forse sì. Sì con le dovute puntualizzazioni, sì con le dovute differenze e sfaccettature, sì con le dovute specifiche.
Ed ecco che già dalla seconda metà dei mitici ’70, da una costola del punk prende pian piano vita un ramo secondario, un binario che prende una propria, autonoma direzione. E’ un movimento musicale che, a dire il vero, non nasce soltanto dal punk, ma assorbe vari influssi e idee, rielaborandoli, presi dalle correnti più disparate, dal rock come dalla tradizione classica occidentale, dal funky come dal reggae, dal pop come dalla musica etnica, anzi dalle musiche tradizionali delle diverse parti del mondo. In più gli forniscono un fondamentale supporto strumentale sia l’elettronica, allora in prepotente ascesa, sia la riscoperta di strumenti insoliti e dimenticati, magari legati a tradizioni musicali lontane dalla nostra cultura occidentale. Insomma è un vero e proprio rimescolamento, un “pot-pourri”, un fantastico frullato di ispirazioni molteplici quello che prese il nome, molto generico ma sostanzialmente indicativo, di “new wave”.
Si fa certo una grande fatica a trovare una valida e onnicomprensiva definizione di “new wave”: molto diversi fra loro sono stati gli intenti e i risultati musicali di chi viene classificato sotto questo nome. Coloro che ne sancirono la nascita dovevano piuttosto considerarsi dei pionieri della ricerca musicale, dei curiosi per indole e atteggiamento, dei ricercatori sonori che esploravano nei meandri più insoliti di questa forma d’arte. Un folto manipolo di artisti, quasi di alchimisti, che volle rompere con le convenzioni fino ad allora in auge, proponendo sound del tutto nuovi e, se vogliamo, anche rivoluzionari.
Alcuni di essi sono partiti proprio dal punk, ribadendone i caratteri di urgenza ed immediatezza e arricchendoli con l’utilizzo delle tastiere, strumento fondamentale in ambito new wave, dove però queste ultime perdevano quelle caratteristiche di supponenza e aulicità che ne avevano fatto le protagoniste del rock progressivo. Qui, esse risultavano meno pretenziose e più fruibili e, probabilmente proprio per questo, quando si dice new wave, la si accosta indissolubilmente ad un uso preponderante ma “facile” delle tastiere, almeno quando il movimento muove i primi passi.
Siamo intorno al ’75 e il palcoscenico che vede nascere la new wave sta, inizialmente, negli Stati Uniti, con New York capofila e con diramazioni fondamentali sulla costa ovest e nel middle-west, Ohio in particolare. E’ qui che si assiste ad una graduale contrapposizione prima e, poi, sovrapposizione di tutto un sottobosco underground, fecondo e ribollente, a danno di uno stantio e demotivato pop, hard, glam e, soprattutto, progressive rock, senza più idee e stimoli. Il desiderio di creare e proporre qualcosa di più immediato, costruito con composizioni meno barocche e pretenziose rispetto al prog rock imperante, ma anzi più dirette e spontanee, si fece sentire con una certa urgenza e necessità. Nonostante ciò, accanto a band dove rimaneva, quale elemento cardine, un modo “sporco” e sgradevole, tradizionalmente parlando, di fare musica (una per tutte, Patti Smith Group), debitore del punk, nascevano gruppi che intendevano proporsi da un punto di vista più erudito, maggiormente intellettuale e che diedero un importante apporto ad un certo tipo di new wave, rappresentandone una fondamentale derivazione (MC5, Velvet Underground, Stooges), band seminali sia per quanto riguarda il punk che per tutto ciò che ne seguì.
Mentre nella Grande Mela, dunque, si mettono in evidenza band dalle nervose trame pop (Talking Heads), dalle influenze garage-surf (Ramones), dalle esasperate derive elettroniche (Suicide), dagli insospettabili ammiccamenti rock-blues (Heartbreakers), in California si sperimentava ad oltranza, partorendo incredibili e impensabili risultati sonori a nome “Chrome” o “Residents” che rilessero la tradizione rock, destrutturandola e ricostruendola con l’aiuto della nascente elettronica al servizio della musica. A metà strada, l’Ohio fece il resto, con i “Devo”, rivoluzionaria band di Akron, i “Pere Ubu” e gli “Electric Eels”, spiazzanti come pochi ed entrati a pieno titolo nel gotha del Rock con la “r” maiuscola.