Ricordare e far conoscere la Resistenza, la “liberazione” ed i loro preziosi portati e cioè la conquista della libertà e della democrazia – purtroppo! mai veramente tale – questa in sintesi è o dovrebbe essere la sostanza della ricorrenza del 25 aprile. Una “festa” che ieri ha avuto anche ad Oristano, nell’aula consiliare del Comune, il suo momento di approfondimento e di riflessione, con la presentazione del libro di Filippo Focardi, “Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale“, uscito per Laterza nel 2013, più volte ristampato e poi tradotto in francese e tedesco.
Invero l’ex capitale giudicale non ha mai considerato veramente “suo” il 25 aprile. E anche ieri non s’è fatta eccezione. Nonostante l’importante ospite e una giornata climaticamente non felice per le gite fuori porta, la non eccezionale presenza di pubblico, in particolare di “under 40”, che davvero si sarebbero potuti contare sulle dita di una mano – così come i politici! – ha mostrato la difficoltà di innestare la “Liberazione” in un contesto socio-culturale rimasto escluso da quegli accadimenti, ma soprattutto da ciò che in termini politico-culturali li determinò e produsse. Del resto, almeno fino all’avvento del “guidosinistra” al governo della città, nel 2012, il 25 aprile era praticamente scomparso dal calendario oristanese. Ecco perché, questa volta ci sentiamo di dare ragione al nostro sindaco GT, quando ha – con il solito gonfiare il petto! – attribuito a sé il merito dell’ostinazione che, da quando è iniziata la sua “avventura amministrativa”, ha permesso di riportare la “Liberazione” ad Oristano. Sennonché bisognerebbe ricordare a SAR il Sindaco che queste ricorrenze hanno un senso e lasciano profonda e duratura traccia soltanto quando al retorico momento tribunesco del giorno si accompagnano concreti e costanti comportamenti politici di rispettoso confronto e di proficuo dialogo collaborativo, ossia esattamente l’opposto di quanto messo in atto da lui nei quattro lunghi anni della sua oligarchica sindacheria. Il resto sono soltanto chiacchiere leggere come l’aria.
Tornando alla bella serata di ieri, accanto al professor Focardi, docente di storia contemporanea a Padova, anche se fiorentino di nascita e di studi, sono intervenuti: Giuseppe Manias, della Biblioteca Gramsciana, che ha anche svolto il ruolo di moderatore; Marcello Marras, direttore del Centro Servizi Culturali di via Carpaccio, il quale ha illustrato lo sforzo fatto dal Centro, insieme alla Biblioteca gramsciana, per ridestare nell’Oristanese l’interesse e la stessa memoria sulla Resistenza e sulla Liberazione, con la conferenza di Claudio Sinigardi, importante studioso e direttore dell’Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea di Modena, e con una rassegna di film sull’argomento; e Walter Falgio, presidente del neonato ISSASCO (Istituto Sardo per la Storia dell’Antifascismo e della Società Contemporanea), fondato nel 2015 ad Ales ma con sede a Cagliari, collegato alla rete dell’INSMLI (Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia), per il quale dopo la “sacralizzazione” di quegli eventi “occorre ora invece demitizzarli sottraendoli alla vuota retorica celebrativa per renderli davvero concreti e positivi e quindi restituirli al senso comune, trasmettendone nel contempo il loro sistema di valori“.
Al professor Aldo Borghesi, docente di materie letterarie e storia al Liceo “Margherita di Castelvì” di Sassari e direttore dell’ISTASAC (Istituto per la Storia dell’Antifascismo e dell’Età contemporanea della Sardegna Centrale) di Nuoro, dal 2013 associato anch’esso alla rete INSMLI, è stato invece affidato il compito di presentare il libro di Focardi. “Lo storico Tony Judt – ha esordito Borghesi – parlò di eredità maledetta della Seconda guerra mondiale, riferendosi non solo alle gravissime conseguenze di quel conflitto, ma soprattutto alla conveniente attribuzione alla Germania nazista di tutte le responsabilità e la presunzione di innocenza degli altri paesi europei coinvolti, dove invece non mancarono certo regimi, partiti e apparati collaborazionisti. Questa autoassoluzione trovò terreno fertilissimo soprattutto in quell’Italia, che doveva mettersi alle spalle e far dimenticare tutte le sue gravi responsabilità, a cominciare dalla primogenitura del fascismo e dal Ventennio mussoliniano, ma soprattutto il suo patto d’acciaio con Hitler”.
Alla costruzione del mito del buon italiano contrapposto al tedesco cattivo, tesero dal ’43 in poi, chi per motivi di convenienza, chi di opportunità, chi di legittimazione e di politica estera (per esempio evitare una pace eccessivamente punitiva), un po’ tutti i soggetti rappresentativi del Paese, dalla Corona, fautrice e complice del Fascismo, a Badoglio, le cui responsabilità erano ben note, dalle forze politiche antifasciste alla stessa RSI, nel tentativo di differenziarsi dall’occupante tedesco, fino ai governi del dopoguerra. Il punto di partenza fu però fornito da quello che Borghesi ha definito “un topos propagandistico alleato”, diffuso dalla loro propaganda (la molto ascoltata Radio Londra del colonnello Stevens e di Candidus, altre emittenti, i manifestini lanciati dagli aerei insieme alle bombe ecc.), per cui la guerra era una responsabilità di Mussolini e dei suoi gerarchi e non del popolo italiano, che invece voleva la pace. Ovviamente lo scopo di questo lavorio propagandistico era quello di minare il consenso interno del regime, che nel 1940 era forte, ma che negli anni successivi, per l’aggravarsi della situazione militare, per la crescente offensiva aerea, per i disagi sempre maggiori della popolazione, andò via via diminuendo, fino al crollo del 1943.
Un mito che nel dopoguerra è stato molto “utile” soprattutto a tutti coloro – ed erano davvero tanti – che pure ebbero pesanti responsabilità nella lunga catena di crimini di guerra degli Italiani dalla “riconquista” della Libia alla guerra d’Etiopia, dalle operazioni contro la resistenza etiopica a quelle nei Balcani occupati dal 1941, ma che non vennero mai processati né all’estero né ovviamente in Italia. Un mito che comunque non è sempre tale: va infatti ricordato il comportamento di molti italiani, compresi alti ufficiali e funzionari, che si fecero apprezzare per umanità e coraggio, così come, per altro, il buon ricordo che i Tedeschi lasciarono in molte zone d’Italia, fra cui la Sardegna, per la loro disciplina, il contegno e la correttezza, ben diversi dai comportamenti per esempio di alcuni reparti Alleati, come le colored troops yankee ma soprattutto i feroci goumiers del CEF, comandato dal generale Juin.
Al rapporto dei Sardi con questi avvenimenti storici e con la Resistenza, Borghesi ha dedicato la parte conclusiva della sua relazione, per sottolineare con amarezza come le vicende della guerra di liberazione non abbiano mai fatto grande presa qui da noi. “Ne è prova – ha proseguito Borghesi – il fatto che le vicende, importanti e significative, di molti sardi che nel Continente o nei Balcani si batterono contro gli occupanti nazifascisti, sono ignote ai loro stessi familiari e discendenti. Gli stessi protagonisti evitarono di raccontarle”. Questo, secondo il docente sassarese, “perché in Sardegna ci si rifugia in una visione consolatoria della nostra storia antica e lontana, come per rinfrancarci dall’amara realtà, dagli attuali disastri”. Da qui il forte interesse per una storia, come quella dell’Atlantide sarda, non soltanto priva di solidi puntelli documentari, ma caratterizzata da presupposti vetero-nazionalistici se non proprio nazisti e razzisti. Filippo Focardi, che proprio ai temi della memoria del fascismo, della Seconda guerra e della Resistenza in Italia, nonché della punizione dei criminali di guerra tedeschi e italiani, ha dedicato gran parte del suo impegno scientifico, pubblicando in proposito alcune importanti opere monografiche e diversi articoli, ha introdotto il suo intervento affermando che il suo libro “parla di due stereotipi strettamente intrecciati fra loro e sviluppatisi tra la firma dell’armistizio e quella del trattato di pace (1943-1947): l’italiano bravo, pacifista, buono e generoso contrapposto alla belva nazista, implacabile, priva di anima, anche quando si presentava elegante d’aspetto e colto”. Questi stereotipi, nonostante tutte le memorie divise dell’esperienza bellica, hanno trovato accoglimento pressoché unanime, tanto da riuscire a cancellare le tracce delle pesanti verità e responsabilità storiche di quell’Italia, che, come ha ricordato Focardi, almeno dal 1935 fu ininterrottamente in guerra, rendendosi protagonista nel contempo di gravissimi crimini (dai gas in Etiopia al bombardamento di Barcellona, dalla sanguinosa repressione di Graziani dopo l’attentato subito ad Addis Abeba, culminata con il massacro di Debra Libanos, dalle leggi razziali alle violente azioni di “polizia” e controguerriglia nei Balcani, dove tanti furono i campi di concentramento e gli incendi di interi villaggi da parte delle nostre truppe, fino al collaborazionismo della RSI). Certo gli Italiani, a differenza dei Tedeschi, non si macchiarono mai di crimini “genocidiali” razziali, ma lo stesso soprannome di “bruciacase” con il quale erano identificati in Jugoslavia e Grecia dice – secondo Focardi – già parecchio del loro modo di essere occupanti. Ora di tutto questo non è quasi rimasta traccia nella memoria collettiva, sostituito dal mito del “buon italiano”, creato e propagandato dagli Alleati, che, fra le altre cose, (lettera di Roosevelt e Churchill, Quebec 18 agosto 1943), pur pretendendo la resa incondizionata dell’Italia, promisero un trattamento migliore condizionandolo però ad un importante impegno italiano contro la Germania; ma poi fatto proprio da tutte le nostre classi dirigenti di qualsivoglia colore. Ne è nata una solida ed efficace retorica fatta di celebrazioni del tributo di sangue italiano contro i nazisti e dei comportamenti eroici (soprattutto a favore degli Ebrei), di occultamento dei nostri crimini, che, quando non potevano essere celati, venivano ridotti a “eccessi”, e sostenuta da armadi della vergogna rimasti per decenni nei sotterranei, da un’amnistia generale che ha impedito qualsivoglia processo, al contrario di quanto accadde in Germania, in Giappone, ma anche in Francia (famoso il processo negli anni 90 contro l’ex ministro Papon, alto funzionario ai tempi di Vichy), dalla sistematico diniego alle richieste di consegna dei nostri criminali di guerra da parte di diversi Paesi, che intendevano giudicarli (favorito da alcuni articoli dei nostri codici ma anche dalla sopravvenuta guerra fredda).
Del resto la stessa ricerca storica accademica solo negli ultimi decenni è riuscita a far luce su tante vicende rimaste sepolte per tanto tempo, mentre la politica ha continuato a portare avanti la tradizionale vulgata buonista, di cui ne è stata famosa rappresentazione – ha ricordato Focardi – il celebre film premio Oscar “Mediterraneo”.
Dai numerosi interventi del pubblico è emersa forte la necessità per l’Italia di fare i conti con la propria storia, in particolare con il Fascismo, su cui ancora oggi ci si divide con posizioni spesso acriticamente sostenute.
Due note finali e del tutto personali. Intanto non si può non condividere l’auspicio che l’opinione pubblica italiana – magari anche quella sarda – faccia i conti con il passato nazionale, innanzitutto conoscendolo e poi giudicandolo. Ma questi conti vanno fatti con tutto il passato e non soltanto con il periodo fascista, e, nell’ambito di quest’ultimo, come si dice, “a 360 gradi” e non a 36. Solo così si eviterà il perpetuarsi di visioni come quella, molto popolare anche in certa politica, che legge il fascismo come una “dittatura sui generis” o “all’acqua di rose”, i cui soli errori sarebbero stati le leggi razziali e la guerra, peraltro fatta esclusivamente per compiacere il Fuhrer, o per paura dello stesso.
E a proposito di crimini di guerra, pur non avendo contezza di eventuali interventi giudiziari nei paesi alleati su propri crimini e neppure delle opinioni di quei popoli in materia, dubito fortemente che in quei paesi ci siano stati vasti ed accesi dibattiti pubblici per esempio sui sistematici bombardamenti aerei terroristici di RAF e USAAF per annientare intere grandi città e le loro popolazioni sia in Germania (Lipsia, Dresda, Colonia, Amburgo, ovviamente Berlino ecc.) sia in Giappone (in particolare quelli pesantissimi su Tokyo), o sui loro “campi di prigionia” (sic!), o sulle stragi di prigionieri o di civili – di cui magari solo ora si ha notizia – o anche sull’uso dei gas da parte degli inglesi e dei francesi in molte guerre coloniali (Iraq, Rif ecc.). Del resto bisogna sempre ricordarsi che la guerra è di per sé una “sospensione della normalità”, che a volte coincide, per vari motivi (innanzitutto l’odio radicato o indotto verso il nemico), anche con una “sospensione dell’umanità”. Questo non significa autoassoluzione, ma implica la necessità di non fare la storia con due soli colori: il bianco, per i vincitori e il nero, per gli sconfitti.