Tanti anni fa, quando la giovane età mi rese curioso ed incline ad avvicinarmi alla musica come forma d’arte catartica e – perché no? – esorcizzante, cominciai ad ascoltare le radio private della mia città o meglio, ascoltando per caso le stazioni radio, mi resi conto che alcune proposte tra le tante, erano particolarmente stimolanti e interessanti: il sound era nuovo, inedito per quei tempi e suonato con strumenti insoliti. C’era qualcosa di estremamente affascinante in quelle canzoni, fredde, sintetiche ma dotate di un appeal eccezionale.
Un primo assaggio di questi nuovi suoni lo ebbi ascoltando, per caso, un brano dei Kraftwerk su un juke-box della località marina dove andavo in vacanza e mi colpì per l’assoluta novità, la freschezza della musica. Mai, fino ad allora, avevo ascoltato qualcosa di simile, qualcosa di così rivoluzionario e inconsueto. Ma c’era di più: i pezzi con le caratteristiche che più tardi li avrebbero identificati come electro-rock, synth-wave o synth-pop, cominciarono ad essere suonati anche nelle discoteche, diciamo, tradizionali, segno che avevano varcato la soglia della popolarità e la stessa dance, in auge in quegli anni, di derivazione disco music, dimostrò di essere fortemente influenzata dalla nascente elettronica, pur rimanendo fondamentalmente funky.
Si è parlato di Kraftwerk e chi più di loro – insieme a Jean-Michel Jarre e, prima ancora, ai Tangerine Dream, Faust e Can – hanno sparso i semi dell’elettronica che sarà con le loro sperimentazioni avanguardistiche al limite dell’immaginabile? Senza dimenticare l’apporto fondamentale di un genio come Brian Eno, ispiratore e co-autore della prima produzione Roxy Music e, poi, collaboratore e mentore di innumerevoli bands e artisti, primi fra tutti, il Bowie della trilogia berlinese (“Low”, “Heroes” e “Lodger”), David Byrne (“My life in the bush of ghosts”, 1981), Robert Fripp, Robert Wyatt, Jon Hassell.
Gli Stati Uniti bruciarono sul tempo, anche in questo caso, la vecchia Europa e l’Inghilterra in particolare che tanto avrebbe poi dato quanto ad electro-rock e tecno-pop (non nel senso di techno che si intende ora). Furono i Suicide ad inaugurare negli States il filone elettronico con un sound martellante ed ipnotico, innovativo ma poco fruibile: una musica per pochi, all’epoca poco compresa ma poi rivalutata, e dove la voce di Alan Vega, incisiva, tesseva trame nervose sul synth ossessivo di Martin Rev.
I Devo sono l’altra fondamentale band americana per conoscere queste nuove tendenze musicali. Nel ’78 esce “Q: Are we not men ? A: We are Devo !”, album in cui si compendiano riverberi 60’s, utilizzo dell’elettronica, un andamento nervoso e forti rimandi al punk allora contemporaneo. Il tutto sarà confermato nel successivo “Duty now for the future”, del ’79 mentre, ancora dopo, si faranno attrarre da un tecno pop più facile ed immediato.
L’Inghilterra, per contro, oscillava tra sperimentazioni avanguardistiche e tecno pop di facile presa. Alla prima istanza aderirono gruppi come i Cabaret Voltaire, con continui e ossessivi loop elettronici che si avvolgevano su loro stessi a creare una trama lisergica, straniante e allucinata; i Clock DVA le cui sperimentazioni erano incursioni nel free-jazz pur all’interno di una struttura fondamentalmente punk, rumoristico e post industriale; e, ancora, i Throbbing Gristle la cui musica richiamava atmosfere post industriali, esperienze rumoristiche, suoni metallici che rimandano a sentimenti di alienazione e solitudine.
Virando verso direzioni leggermente più accessibili, incrociamo gli Ultravox di John Foxx. Anch’essi, pur partendo da radici punkeggianti, sposarono la causa elettronica sempre più convintamente, supportati, in questo, dalla monocorde e glaciale voce del loro frontman. Ecco quindi che, dai primi due album, maggiormente punk, giunsero ad un terzo prettamente elettronico (personalmente, il migliore del periodo Foxx). Il leader, dopo “Systems of romance”, intraprese la carriera solistica continuando il percorso sperimentale elettronico, prima con “Metamatic” dell’80 e, poi, l’anno dopo, più compiutamente – e con risultati eccezionali! – con “The garden”. Gli Ultravox trovarono una nuova voce in Midge Ure e, con lui, la band virò verso un tecno pop raffinato e d’effetto, grazie anche all’inserimento di piano e violino in alcune composizioni. Specialmente “Rage in eden” (1981) rappresenta un’incursione in territori dalle venature darkeggianti, dalle trame oscure e dal forte impatto emotivo.
Appartengono al tecno-pop anche gli Eurythmics, caratterizzati dalla calda voce della cantante Annie Lennox. La loro produzione partì da basi sperimentali (“In the garden”, 1981) per approdare su proposte electro-rock più interessanti e composizioni tecno pop meno memorabili.
Sempre sul fronte tecno pop britannico, sono da citare i Visage, supergruppo che annoverava tra le proprie fila Midge Ure e Billy Currie degli Ultravox e anche diversi membri dei Magazine. Il leader era Steve Strange, prematuramente scomparso poco più di un anno fa, il quale, pur dando un’impronta facile alla produzione dei Visage, fu un’icona del movimento new romantic che sarebbe stato di là da venire. I loro brani si distinguevano per eleganza e raffinatezza, presentando nello stesso tempo molti elementi oscuri come si addiceva al genere.
Gli Wire di Colin Newman passarono da esordi dichiaratamente punk a sperimentazioni elettroniche con l’eccezionale album “154” del ’79. Dall’EP “Snakedrill” in poi, le loro proposte virarono verso interessantissimi ambiti tecno pop assolutamente originali e articolati. Pur conservando la forma canzone, le loro composizioni conservarono l’aspetto introspettivo e di “studio”.
The The era, invece, il progetto musicale portato avanti da Matt Johnson. Il primo lavoro del gruppo fu a suo nome ma “Soul Mining” dell’83 fu, appunto, a nome The The, una pubblicazione di inediti che andavano dall’elettronica sperimentale ad inserti folk, tribal e soul.
Un’altra incredibile voce dell’ambito che stiamo trattando è stata quella di Alison Moyet degli Yazoo, il cui co-fondatore fu Vince Clarke, allontanatosi dai Depeche Mode. La loro musica era una synth-wave di immediata presa con rimandi blues e funky, favoriti dalla voce “black” della performer.
Gary Numan era i Tubeway Army e i Tubeway Army erano Gary Numan, il quale, muovendo da presupposti punk, fa propria la lezione dei Kraftwerk e di Bowie e la rielabora secondo la propria sensibilità musicale, creando suggestioni sonore di indubbio fascino, passando da trame roboticamente gelide di chiara derivazione sperimentale a proposte più melodiche e inclini al tecno pop più facile.
Altro gruppo che militò con notevole riscontro di pubblico furono i Talk Talk, passati anch’essi da una synth-wave di razza ad ambiti quasi post-rock e ambient con “Spirit of Eden”.
All’ambito new romantic appartengono bands celebri: basta citare i Duran Duran e gli Spandau Ballet. I primi – emuli dei Japan per atmosfere e look – erano maggiormente dotati tecnicamente e creativamente degli Spandau, e quindi capaci di composizioni più complesse, specialmente nel primo album omonimo dell’81.
Da confrontare con Gary Numan alias Tubeway Army sono gli Orchestral Manoeuvres in the Dark – OMD che ne ricalcarono le orme freddamente sintetiche per poi deviare anch’essi verso una synth-wave più commerciale, rappresentata dalla celeberrima hit “Enola Gay” dell’80.
Dopo l’esperienza con i Joy Division e la tragica fine del leader Ian Curtis, i membri ne riproposero lo spirito nel primo lavoro a nome New Order, oscuro e sofferto album contraddistinto dalla persistente presenza del fantasma di Curtis. Tuttavia, già dal secondo loro lavoro, il loro suono viene reso più aperto, luminoso e incline alle tematiche tecno pop, attingendo in maniera più decisa alle possibilità che le nuove macchine elettroniche davano.
Se si parla di electro-rock, non si può prescindere dai The Human League, anch’essi enormemente influenzati dal punk (nel primo loro lavoro) e sempre propensi, nei successivi album, ad una ricerca sonora continua e senza compromessi, pur restando in un ambito tecno-pop.
Da una costola dei The Human League nacquero gli Heaven 17, molto più inclini alla synth-wave più abbordabile nonostante un interessante esordio funkeggiante (“Penthouse and pavement”, 1981).
Appartenenti al sottogenere synth-wave furono anche i Soft Cell, formati da Marc Almond, eclettico e stravagante frontman dalle eccellenti doti canore e Dave Ball, tastierista creativo ed originale. I due, diedero alle stampe un gran disco, “Non stop erotic cabaret” del 1981 le cui basi di stampo prettamente synth-wave, si combinavano a qualcosa di molto meno immediato e scontato, qualcosa messo in luce dalle splendide doti canore del cantante. Il risultato fu un disco straordinario, vero riferimento del genere.
Ma il gruppo che ha rappresentato la summa dello spirito new wave, concentrando le istanze post punk con l’urgenza drammatica del dark e l’innovazione tecnologica dell’elettronica, sono stati senz’altro i Depeche Mode. Dopo un primo album di stampo tecno-pop danzereccio, nel quale le composizioni erano a firma di Vince Clarke, dopo il distacco di quest’ultimo, i D. M. cambiarono registro, spostandosi su strutture musicali più complesse, meno scontate, maggiormente articolate. Il processo continuò senza strappi dal secondo album, (“A broken frame”, 1982), in poi, passando per “Construction time again” dell’83 e “Some great reward” dell’84, fino ad approdare – 1986 – a quella meraviglia che risponde al nome di “Black celebration”, dove la maturazione della splendida voce di Dave Gahan arriva a compimento, coronando brani indimenticabili per coinvolgimento emotivo e perizia tecnica e compositiva. Qui la forma canzone raggiunge punte di eccellenza che, tuttavia, si ripeteranno nella lunga carriera dei Depeche Mode e “Black celebration” non rimarrà un canto del cigno.
La lezione della new wave verrà assorbita e perpetrata da altre band che ne amplieranno le prospettive, dando vita a nuovi generi come il post-rock, lo slo-core, il downtempo, l’ambient o lo shoegaze.
Dunque questa vena è ben lungi dall’esaurirsi.
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