Stamane in edicola mi sono imbattuto in un testo dal titolo evidentemente provocatorio, “La costituzione più brutta del mondo”. Pur non conoscendo il suo giovane autore, Federico Cartelli, l’argomento trattato e l’editore “di parte” – il Giornale – hanno subito suscitato un forte interesse per questa pubblicazione, uscita peraltro nel pieno della bagarre propagandistica in vista del referendum costituzionale.
Il testo è un duro pamphlet, che muovendo da una impostazione liberale classica, è fortemente critico verso gli stessi principi fondamentali della Costituzione, “testo a metà fra propaganda comunista ed enunciazione evangelica” che “si smarrisce in una vaghezza d’intenti … ancor più anacronistica e inefficace dinanzi al mondo moderno” (p. 29). I bersagli sono inevitabilmente la concezione statocentrica e statolatrica che la pervade; la conseguente retrocessione dell’individuo-cittadino da portatore di diritti “naturali”, in primis la libertà, a suddito di fronte ad uno Stato “padre” ma soprattutto “padrone” – in tutti i sensi – dal quale attende – “deresponsabilmente” orante – la risoluzione di ogni problema; e tutti i “perniciosi” portati di questa visione, da un vuoto egualitarismo dottrinario, che ha generato una società livellata verso il basso, a un’idea di economia in cui è male tutto ciò che pubblico non è; dall’invadenza della politica all’ipertrofica burocrazia. Insomma, per dirla con Cartelli, “tutti i problemi del Paese derivano dalla Carta”.
E’ davvero così? Certo chi, come me, è vicino a posizioni liberali, rispetto alla nostra Carta fondamentale non può che condividere diverse tra le, peraltro non nuove, critiche mosse da Cartelli. D’altro canto però, proprio alla luce di ciò che questi nostri tempi ci stanno mostrando (un’economia dominata da pochi colossi economico-finanziari privati e perfino pubblici, in grado di fare “il bello ed il cattivo tempo”; una politica burattinesca spesso ridotta ad un ruolo persino grottescamente ancillare), non si può non riconoscere ai nostri Padri costituenti un certo qual dono precognitivo nel volerci evitare a tutti i costi il rischio – oggi molto concreto – di trovarci, al posto dello Stato padrone, la guevariana “libera volpe nel libero pollaio”! Del resto non si può escludere che su di loro, oltre alle impostazioni ideologiche prevalenti – cattolico-sociali e marxiste – abbia anche e non poco influito la stessa esperienza capitalistica italiana – un capitalismo spesso con poco capitale, tenuto in piedi dallo Stato e fedele alla italica dottrina del massimo risultato con il minimo sforzo – ed il suo tragico risultato bellico. Pertanto, oltre ai sacerdoti del leviatano pubblico e della sua costituzione, anche certi moderni apostoli del dio “mercato” forse dovrebbero rileggere meno fideisticamente i loro testi sacri.
In conclusione propongo quasi per intero l’ultimo riepilogativo paragrafo del libello di Cartelli, comunque interessante e pieno di spunti di riflessione, e del quale faccio mio l’auspicio di riprenderci “il libero diritto di critica” per ripensare il nostro Paese, che, non v’è dubbio, va sbloccato, responsabilizzato ma senza mai rinunciare alle regole ed a certi paletti!
PP. 44 – 48: “Quale futuro?”
… “Triste destino, per il nostro paese: da un lato, i custodi della costituzione sacra e inviolabile; dall’altro, dilettanti allo sbaraglio che periodicamente impastano commi e articoli come dei fornai, con risultati il più delle volte scadenti. …
In sostanza, si è progressivamente esaurito quel fondamento originario costituito dall’indirizzo politico dato dalle forze che sedevano nell’assemblea costituente; si è spento, per usare le parole di Mortati, “quel nucleo essenziale di fini e di forze che regge ogni singolo ordinamento positivo”, che coincide cioè con l’insieme delle regole rappresentanti dell’interesse generale di una comunità in un determinato momento storico e in un determinato luogo. La costituzione materiale può essere interpretata come l’idem sentire della comunità politica, di cui i partiti si fanno portatori per eccellenza. …
L’interesse generale del dopoguerra era ricostruire un Paese sconfitto, devastato e diviso. La Costituzione fu concepita con l’intenzione di affidare allo Stato questo obiettivo e scritta con la retorica paternalistica che si doveva a un popolo che andava rassicurato su un avvenire incerto. La centralità del lavoro, l’assoluta libertà dello Stato di intervenire nell’economia e come creatore supremo dei diritti sociali, il cittadino che trova la sua dimensione privilegiata come lavoratore e nella collettività sono i binari su cui scorre la costituzione materiale all’atto di essere tradotta in forma scritta. Quest’impianto valoriale programmatico ha il suo compimento e climax col boom economico, quando industria e settore terziario divengono i nuovi perni dell’economia a scapito dell’agricoltura. Ma fattori interni – le tensioni sociali degli anni 70, gli anni di piombo e il terrorismo – ed esterni – su tutti, la guerra del Kippur e la crisi energetica del 1973 – segnano la fine dell’illusione di una crescita illimitata e la crisi del modello politico, sociale ed economico sancito dalla Costituzione. Ammetterne una prematura sconfitta sarebbe stato impossibile; è così iniziato il circolo vizioso … fra aumento incontrollato della spesa pubblica, consenso elettorale e debito pubblico, allo scopo di continuare a proporre il medesimo modello di sviluppo del dopoguerra. Il conto s’è rivelato salatissimo: la fine del welfare state all’italiana è la fine di quella costituzione materiale fondata sul silenzioso baratto tra asservimento al potere statale e una illusoria protezione sociale permanente. Sono cambiati, inoltre, gli attori principali di questo processo, nazionali e internazionali. Tangentopoli ha sconvolto la geografia politica, che ha visto la dissoluzione dei grandi partiti di massa in una frammentazione che vanamente si è cercato di riportare all’interno di un maturo bipolarismo. Parallelamente, la caduta del muro di Berlino ha completamente ridisegnato gli equilibri internazionali nei quali era stata calata la costituzione post bellica.
Usciamo dall’ipocrisia. Smettiamo di fingere che non siano passati quasi settant’anni. Una Costituzione armistiziale scritta sotto tutela delle potenze vincitrici non può più reggere il passo con le sfide del mondo globalizzato. Non si tratta, come spesso si sente affermare, solo di cambiare le regole del gioco (espressione di per sé superficiale), ma anche la natura stessa del patto fra cittadini e Stato; di ritrovare un rinnovato idem sentire che non ricada nell’errore dei sentimentalismi, ma rifondi il Paese su basi concrete. Ciò toglierebbe molti alibi, così alla classe dirigente come ai cittadini. Sarebbe, per tutte le persone di buona volontà, un momento altissimo di dialogo e confronto, vincolati dall’obbligo morale di produrre una legge fondamentale che sarebbe poi sottoposta – questa volta sì – al referendum confermativo. Non si può pensare di riformare davvero questo paese senza cambiarne il cuore pulsante, né che sia sufficiente qualche ritocco per trasformare l’Italia in un paese moderno. Per discuterne, non serve né un patentino, né una certificazione, né la bolla papale di qualche pontefice laico che si ritiene custode di sacre verità. Se la possibilità di un’assemblea costituente appare utopica almeno proviamo ad aprire una breccia nel granitico e arrogante monopolio intellettuale che protegge questa costituzione da tempo in default. Riprendiamoci il libero diritto di critica – e, perché no, di polemica – ed esercitiamolo. Al pensiero unico che ci sta portando nel baratro, va opposta la forza di un rinnovato mercato delle idee, senza paure o timori reverenziali, va opposta una scelta di libertà”.