E’ notizia di queste ore l’inizio ad Oristano della raccolta delle circa 3000 firme necessarie per il referendum comunale contro Abbanoa. Anche in quest’ottica, mi è sembrato importante continuare l’analisi della vicenda, iniziata con il precedente articolo “Riforma della Costituzione e Abbanoa, lontane solo apparentemente”, e che, in Sardegna, ha generato l’attuale sistema di gestione, oggetto di pesanti critiche e lamentele, oltre che di innumerevoli contenziosi giudiziari. Il fine è quello di mostrare le determinanti volontà e responsabilità politiche di questa infelice scelta, e, nel contempo, evidenziare che altri percorsi, migliori e più democratici, erano e (forse) sono ancora possibili.
Ora, per servizio idrico integrato, secondo la definizione contenuta nel DL 152/2006 (il c. d. Codice Ambientale) all’articolo 141, comma 2, si intende: “… l’insieme dei servizi pubblici di captazione, adduzione e distribuzione di acqua ad usi civili, di fognatura e di depurazione delle acque reflue“. In questi stessi termini era già stato definito dalla Legge 36 del 1994 (la famosa Legge Galli), poi recepita, riordinata ed integrata dal Codice Ambientale.
La necessità di considerare le questioni riguardanti le acque nel loro complesso anche a fini di tutela degli ecosistemi è certamente condivisibile, ed in questo senso si sono espresse costantemente le direttive in materia dell’Unione Europea, compresa quella di maggiore rilevanza nel settore, la n. 60 del 23 ottobre 2000. Da ciò peraltro discende una conseguenza giuridicamente rilevantissima, e cioè che , trattandosi di materia ambientale, essa è destinata all’esclusiva competenza legislativa statale, rispetto alla quale dunque le regioni hanno solo poteri normativi di attuazione o delegati dallo Stato. Lo ha ribadito recentemente la stessa Corte costituzionale (sentenza 32/2015), stroncando l’intendimento della Regione Liguria di ritagliarsi spazi di autonomia nello stabilire forme di gestione del servizio idrico integrato.
Ma, per la Sardegna, questo non è certo un problema: infatti “Mamma Regione”, come ben vedremo più avanti, non mai ha mostrato o voluto mostrare interesse a regolamentare in autonomia la materia! Procediamo però con ordine.
Nel preambolo della citata Direttiva 60 si esordisce enfaticamente con l’affermazione: l’acqua “non è un prodotto commerciale al pari degli altri, bensì un patrimonio che va protetto, difeso e trattato come tale”. Una formula apparentemente ambigua, secondo cui l’acqua sarebbe una specie particolare di bene comunque commerciale e come tale possibile oggetto di mercificazione e di profitto. Almeno così ha prontamente interpretato tali parole il legislatore italiano, subito stoppato dai cittadini nel referendum abrogativo del giugno 2011.
Ma, a ben vedere, la Direttiva europea non sosteneva questo! Prendiamo infatti l’art. 9 (“Recupero dei costi relativi ai servizi idrici”), dove possiamo chiaramente leggere (c. 1): “Gli Stati membri tengono conto del principio del recupero dei costi dei servizi idrici, compresi i costi ambientali e relativi alle risorse, prendendo in considerazione l’analisi economica effettuata in base all’allegato III e, in particolare, secondo il principio «chi inquina paga»”, precisando trattarsi di “un adeguato contributo al recupero dei costi dei servizi idrici a carico dei vari settori di impiego dell’acqua, suddivisi almeno in industria, famiglie e agricoltura”, e specificando che “al riguardo, gli Stati membri possono tener conto delle ripercussioni sociali, ambientali ed economiche del recupero, nonché delle condizioni geografiche e climatiche della regione o delle regioni in questione”. Dunque l’Unione Europea saggiamente riconosceva, nella gestione delle acque, le specificità territoriali, affidando conseguentemente ai singoli Stati ampi margini di manovra per quanto riguarda le politiche tariffarie. E che ha fatto il legislatore “nostrano”? In nome del solito preteso principio di uguaglianza, interpretato alla maniera dei somari, ai cui occhi tutte le situazioni sono uguali – povera Costituzione! Povero art. 3! – , è andato in direzione esattamente contraria, organizzando la potestà tariffaria in modo assolutamente centralizzato e uniforme, senza spazi significativi per la normazione periferica. Alla faccia delle tanto celebrate – a parole! – autonomie locali!!!
Quanto alla gestione del servizio niente veniva prescritto dalla Direttiva 60, per cui erano legittime le disposizioni della Legge Galli, che (art. 9) attribuivano a Comuni e Province il compito di organizzare il servizio idrico nel rispetto dei principi di efficienza, efficacia, ed economicità, limitandosi a prevedere delle forme di coordinamento per superare l’eccessiva frammentazione e giungere ad un’unitarietà di gestioni. “Unitarietà” appunto, e non “unicità”!!! L’unicità invece è stata introdotta dal DL 152/2006 – il “Codice Ambientale” – che, ha appunto “adottato” il principio dell’unicità di gestione con una duplice valenza: come direttiva al legislatore regionale vincolato ad istituire un unico ente di governo per ciascun ambito ottimale; e nei confronti di quest’ultimo, a sua volta vincolato ad individuare un unico gestore del servizio (art. 147 c. 3, lettera b, e art. 149 bis c. 1). Insomma una vera e propria reductio ad unum che alle Regioni più attente alla difesa delle proprie prerogative di autonomia gestionale, certo non poteva piacere. E infatti questi Enti hanno subito contestato la legittimità di tale norma di fronte alla Corte costituzionale, lamentando – giustamente! – che il Codice Ambientale a tal riguardo non aveva riordinato, bensì stravolto la Legge Galli, violando soprattutto quel principio di ragionevolezza delle leggi sancito nell’art. 3 della Costituzione (uno dei compiti più delicati in capo al legislatore!). Infatti, secondo i ricorrenti, s’era adottata l’unicità di gestione “… senza tenere conto dei potenziali effetti negativi che essa è in grado di produrre“, cioè senza considerare “le particolari esigenze e le peculiarità delle singole realtà territoriali le quali ben potrebbero invece consigliare in casi particolari una soluzione differente“.
E la specialissima Regione sarda che ha fatto? S’è sicuramente inalberata, mettendosi subito alla testa del gruppo delle Regioni “ribelli”, direte voi. Niente di tutto questo! Anzi, sempre solidale con Sua Maestà lo Stato italiano, la nostra fintamente autonoma Regione s’era addirittura portata avanti con il lavoro! Infatti la Legge Regionale n. 29 del 1997 (!!!) aveva già stabilito l’istituzione in Sardegna di un unico ambito territoriale ottimale nel quale gestire il servizio, nonché la nascita di un suo unico gestore, quello che poi nel 2004 l’Autorità d’ambito individuò in … Abbanoa!!! Ovviamente la motivazione è sempre la solita dei governi e delle Giunte soprattutto di Centrosinistra: ce lo impone la Legge Galli, ce lo impone l’Europa!!! Eppure, come abbiamo visto, le cose non stanno affatto così.
Ad ulteriore riprova di quanto qui sostenuto aggiungiamo che la controversia davanti alla Suprema Corte venne poi sanata dall’intervento del legislatore nazionale (DL 4/2008 art. 2 c. 13), reintroducendo il principio dell’unitarietà della gestione (v. sentenza n. 246/2009). Tuttavia nel 2014 il nuovo governo presieduto dall’illuminato fiorentino riformatore di costituzioni, nonché implacabile accentratore, con il suo ormai celebre “Sblocca Italia” – ma per alcuni “Sbrocca Italia!” – il DL 133, ha nuovamente stabilito il ritorno al principio di unicità. Non sono al corrente di ulteriori impugnazioni di fronte alla Corte costituzionale, ma mi sento di affermare con il 99,999% di sicurezza che non sarà certo la specialissima Regione Sardegna a farlo!!!