Muovo da un detto sardo “chentu concas chentu berritas.” Esso in sostanza evoca la difficoltà di ridurre a sintesi le variegate ed articolate idee che fanno capo ad un elevato numero di soggetti. Più in generale pone il tema della difficoltà di gestire la complessità del reale.
Ebbene oggi sono – ahimè! – tanti quelli che guardano a questa complessità come un fastidio di cui sbarazzarsi. E la loro ricetta è sempre la stessa : semplificare nella maniera più rozza tutti i processi decisionali. Pratica invalsa innanzitutto nel sistema economico – dove la concentrazione dei capitali nelle mani di pochi viene oramai esplicitamente teorizzata in quanto le grandi dimensioni economiche aziendali sarebbero le uniche a poter consentire la competizione nei “mercati globali” – e poi nel sistema politico, che, peraltro, di quello economico è meramente ancillare. Tutto ciò in uno scenario di brutale semplificazione sociale – con cittadini oramai standardizzati su banali modelli di massa – ed ambientale, stante la continua perdita di biodiversità dell’ecosistema.
Badate non sto filosofando o astraendo, perché i frutti malati di queste dinamiche sono visibili a tutti, anche in Sardegna, dove constatiamo il consolidamento di un fenomeno già in essere da tempo e cioè il crescere della forza politica ed economica di alcuni territori a discapito e detrimento di altri, condannati senza appello alla desertificazione sociale. Leggendo un po’ di tempo fa le sacrosante rivendicazioni dei Sindaci del Marghine, mi domandavo quanto potesse suonare, a costoro ed a tutti noi, beffarda l’affermazione di principio rinvenibile nell’art. 1, comma 5 della “ineguagliabile” legge regionale di riforma degli enti locali( L.R. N° 2 /2016): “La Regione tutela e valorizza città e paesi, ai quali riconosce la funzione di presidio e valorizzazione del territorio regionale e promuove politiche di pari opportunità all’accesso ai servizi, evitando la disparità tra i territori, allo scopo di garantire lo sviluppo e l’equilibrio socio-economico delle comunità locali”. Ciò che fa il paio con una altra non meno vana disposizione contenuta nell’articolo, 3 comma 3 lett.d), che “impone” alla Regione di finanziare, ovvero disporre, sulla base di specifiche intese, altre misure perequative a favore di tutti gli ambiti territoriali esclusi dalla partecipazione a finanziamenti statali o europei destinati allo sviluppo di città o reti metropolitane.
In realtà crescita da un parte e decrescita dall’altra avvengono inevitabilmente in modo inversamente proporzionale, ciò in generale (il principio entropico docet) ed in particolare nel nostro sistema economico, il quale anche per via dell’insularità, rimane sostanzialmente chiuso e limitato, con l’effetto che le risorse si possono solo spostare da una parte ad un altra ma non moltiplicare miracolosamente.
La conferma, se mai ve ne fosse stato bisogno l’abbiamo trovata nella recente riforma sanitaria regionale, laddove le forze accentratrici, brandendo le armi della maggiore efficienza ed efficacia del sistema, fanno l’ennesimo massacro delle articolazioni dell’assistenza sanitaria diffuse nel territorio regionale, ponendo ovviamente ulteriori premesse per l’aggravarsi di quel fenomeno di spopolamento che si enuncia ad ogni piè sospinto di volere arginare.
E’, quindi, urgente la ricostruzione di una Sardegna policentrica che assicuri dignità a tutti i suoi centri abitati, grandi e piccoli, ed alle persone che li abitano. Ma per fare questo non c’è più spazio per qualche riformicchia di facciata o per risibili master plan per le zone interne. Si tratta di rovesciare radicalmente quel paradigma di cui ho dato conto sopra, ciò che impone innanzitutto di spazzare via l’assurda legge regionale di riforma degli enti locali e con essa la esiziale trovata di istituire in Sardegna una città metropolitana. Questo lo si deve innanzitutto alla dignità della Sardegna tutta e poi per per tentare quantomeno di invertire quel fenomeno di “urbanizzazione indotta” cosi efficacemente spiegato nelle sue dinamiche in un recente articolo di Adriano Sitzia su questo stesso blog.
Al contempo è necessario un nuovo patto fondativo della convivenza civile, ed in questo senso va nella giusta decisione l’iniziativa del Partito dei Sardi volta a dar vita ad una Costituzione della Nazione Sarda. Lodevole l’intendimento, assai discutibili forme procedure e contenuti. Senza entrare in questa sede nel merito della sua dettagliata articolazione normativa, mi soffermo su alcune delle enunciazioni di principio ivi rinvenibili. Tra queste campeggia la “felicità” dei Sardi. Ora, è chiaro che in un sistema costituzionale che si definisce di ispirazione liberale, la felicità dei cittadini non è una cosa di cui si dovrebbero occupare le istituzioni e tuttavia, se con questa esplicitazione si intende fare una breccia nel muro del paneconomicismo dilagante e quindi rimuovere la crescita economica come unico orizzonte e destino dei propri cittadini, allora essa deve davvero dirsi bene venuta.
Vi è poi un altro punto, assolutamente qualificante. Mi riferisco al territorio ed all’ambiente naturale, rispetto ai quali è insufficiente riprodurre le vecchie e stantie formule che ne prevedono la tutela e la valorizzazione come se essi fossero oggetti di cui poter disporre. Il Popolo sardo si può definire tale solo ed esclusivamente in virtù della specialissima relazione con la sua terra, intesa come micro sistema di flora, fauna, clima, paesaggio, culture; relazione che quindi è costitutiva della nostra identità. Perciò, quando trattiamo la nostra terra come un oggetto, come una risorsa (è ciò che abbiamo ancora sentito nelle dichiarazioni programmatiche della Giunta Lutzu, pur insieme ad una invece ben più convincente, se pur timida e confusa, idea di rilocalizzare l’economia: finalmente!) non stiamo facendo altro che reificare e mercificare noi stessi e la nostra dignità.
Ecco allora che seguitare a concedere, ad arabi o italiani, porzioni di territorio, grandi o piccole, per intraprese turistiche è un condotta che va oltre la mera sottrazione ai sardi del proprio territorio, finendo per connotare il turismo in Sardegna come vera e propria forma di prostituzione sociale; altro che: “popolo sardo, fiero ed incline ad una gioviale ospitalità !” Penso, ancora a che cosa dovrà dirsi di me e dei miei concittadini oristanesi, in termini di responsabilità civica e di amor proprio, per non essersi opposti al taglio di una parte della pineta di Torregrande per lasciare spazio ad un assurdo campo da golf (sic!). Pineta che, oltretutto, verrà per l’effetto menomata nella sua capacità di sequestrare carbonio; mentre quello già contenuto nel suo legname (verosimilmente destinato a combustione) verrà sciaguratamente reimmesso in atmosfera sotto forma di CO2. Ciò in tempi in cui tutti dovremmo o potremmo capire quale terribile destino attenderà, in particolare noi sardi, se si venissero a consolidare gli attuali cambiamenti climatici.
Non vi è dubbio che la democrazia cosiddetta “occidentale” sia in declino, ed ancor prima lo sia il concetto di demos e di persona umana, la quale sembra oramai risolversi e dissolversi nella figura di “consumatore”, forse, però, è ancora possibile che una piccola isola del mediterraneo si contraddistingua per il coraggio di difendere le antiche ragioni e delineare i nuovi orizzonti del proprio vivere insieme e nella natura. In questo caso, e solo in questo caso, avrà un senso proclamare e costituzionalizzare la propria indipendenza. Altrimenti laissez-faire, lasciamo che altri continuino ad imporci i modelli sociali ed antropologici dominanti, avendo però almeno la decenza di smetterla con i meri esercizi di stile quali quelli diffusamente rinvenibili nella legge regionale che sopra ho citato, perché il nostro destino, come già il nostro presente, è e sarà ben altro.