Semel in anno licet insanire? Forse non più. Temo che questo sia il lascito dell’ultima edizione della Sartiglia oristanese. Espressione insieme conviviale ed apotropaica di una comunità, essa ha finito per rimanere intrappolata e banalizzata in una rete di asfissianti regole. Con l’effetto, tra gli altri, che gli Oristanesi da interpreti di un rito collettivo sono oramai divenuti meri spettatori di un evento come tanti, a cui assistono dalle tribune e lungo un percorso trasformato nella platea di un grande teatro a cui si è ammessi, per ora senza pagare un biglietto (bontà loro!), dopo essere stati censiti ed ispezionati. Senza tacere del colpo inferto alla mitica onnipotenza de “Su Componidori”, che per effetto dell’applicazione di discutibili misure di prevenzione ha visto condizionata la propria “giurisdizione” sui cavalieri.
Ma è davvero tutta colpa dell’eccesso di zelo manifestato dai tutori dell’ordine? Direi di no. Il Sindaco di Oristano, giorni prima dello svolgimento della Sartiglia, definiva con enfasi questa edizione come la più organizzata e sicura di sempre, e nell’affermarlo egli non è stato certo più originale di quelli che lo hanno preceduto al vertice del Comune o di altre istituzioni che si sono occupate e si occupano di Sartiglia. Essi si affannano in queste enunciazioni senza, forse, rendersi conto che tutta questa organizzazione è sempre meno innocente rispetto alla natura della nostra antica manifestazione (si pensi, ad esempio, come accennavo sopra, al continuo crescere del numero delle tribune lungo il percorso ed ai suoi effetti proprio sulla natura della relazione tra persone e giostra equestre).
Ciò accade poiché organizzazione e sicurezza pescano entrambe dallo stesso bacino: quello della previsione. Nel loro dispiegarsi, infatti, esse proiettano, lanciano innanzi, solamente ciò che hanno preventivamente concepito e dunque rimodellato secondo i propri schemi. Ma questo, a ben vedere, non è il vezzo o il riflesso mentale di un Sindaco o l’implacabile zelo di un Questore di fronte al pericolo terroristico, bensì la cifra della nostra società. Diceva al proposito Raimon Panikkar, uno, a mio parere, tra i più grandi maestri del nostro tempo: “… il pilone, il fondamento, la colonna della civiltà occidentale negli ultimi cinquecento anni è il sentimento della necessità della sicurezza. Non si può vivere senza sicurezza … si arriva fino al parossismo di una civiltà tutta fondata sulla possibilità di avere controllo, dell’essere sicuro, dell’essere certo, di avere criteri“. E’ quella che egli definiva “l’antropologia dell’uomo-progetto”, lamentando il conseguente impoverimento dell’esperienza umana. Non è un caso che le resistenze più acute a questa concezione della realtà prettamente apollinea si manifestino proprio laddove è la dimensione dionisiaca, oscura ed imprevedibile dell’animo umano, a pretendere di potersi dispiegare libera, e cioè nel carnevale. La Sartiglia, in sé o comunque nella sua costruzione mitica, e quindi, lo sottolineo, a prescindere dalle sue origini storiche, a sua volta attinge, forse ancor più di altri riti carnevaleschi, alla dimensione del simbolico e del sacro. Ma se così è, allora essa ha anche altri nemici, mi riferisco ad esempio: alla sua dilagante mediatizzazione; alla sovraesposizione delle stesse persone fisiche che la animano, Componidori in primis; al continuo cercare di penetrare nelle sue viscere col logos e quindi attraverso il costante moltiplicarsi di studi ed approfondimenti teorici. Se volete un esempio, andate a vedere come la Sartiglia è presentata nel sito della fondazione medesima. Essa viene sezionata come nell’ambito di un esame autoptico, così compromettendosi e non facilitandosi (come pur sono certo che si voglia fare) la possibilità che venga olisticamente colta nella sua essenza. Leggete poi ciò che, tra l’altro, si dice nella sezione “storia”: “... Anche la Sartiglia di Oristano (come gli altri tornei cavallereschi del XV e XVI sec., ndr), così come è giunta sino ai nostri giorni, è da considerarsi come un pubblico spettacolo, organizzato allo scopo di intrattenere e divertire gli spettatori“. Verrebbe da dire: ecco, appunto, ora è chiaro tutto quel che sta accadendo alla Sartiglia, perché darsi pena ? Non sarà, invece, che il modo più saggio per conservarla senza banalizzarla sia quello di lasciare in pace il suo mito e consentire che della stessa si occupino solo i suoi antichi custodi, e cioè i gremi, al cui interno l’inevitabile e salutare dialettica tra antico e moderno si invera al riparo dell’altro grande signore dei nostri tempi che, bulimico, tutto pretende di plasmare e riplasmare a misura di se medesimo ? Mi riferisco al convitato di pietra nel mio argomentare e cioè al “business”, a cui sostanzialmente è preordinato l’intero sistema organizzativo della Sartiglia.
Ed allora, davvero, speriamo che San Giovanni e San Giuseppe proteggano da tutti noi la Sartiglia !