STORIA, MEMORIA, IDENTITA’: UNA CONFERENZA DELL’A.N.P.I. ORISTANESE [ADRIANO SITZIA]

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Riflettere sulla storia è sempre compito arduo. Lo è ancora di più se, in epoca di revisionismi, negazionismi, fantastorie ecc., si deve affrontare il tema degli usi che della storia si sono fatti e si fanno, e dei “modi” e “fini” con cui e per cui si è fatta e si fa ricerca o divulgazione storica. E, purtroppo, a volte, al di là delle buone e lodevoli intenzioni di chi vi si cimenta, gli esiti di questi momenti di riflessione possono lasciare …, ecco diciamo perplesso chi vi assiste. E’ proprio questo – mettiamoci però un prudenziale “probabilmente” – il caso di una conferenza-dibattito tenutasi lunedì sera nella sala dell’Hospitalis in via Cagliari, per l’organizzazione della locale sezione ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) e della sua attivissima presidente Carla Cossu. Il titolo era “Storia, memoria, identità e mercato. – e udite udite! – Uso ed abuso pubblico della storia e dell’archeologia”!!! A trattarne sono stati chiamati in qualità di relatori, ergo di esperti, quattro esponenti di quel mondo cosiddetto accademico, sovente bersaglio degli strali scagliati dai fautori della “libera ricerca” e dai loro sempre più numerosi proseliti. Fin qui tutto bene. Poi però iniziano a sorgere alcune delle citate perplessità: infatti soltanto la metà dei relatori rappresentava effettivamente il settore storico-archeologico, e cioè Alberto De Bernardi, docente già di storia contemporanea ed ora di storia globale all’Alma Mater bolognese, il cui più recente lavoro è “Fascismo e Antifascismo. Storia, memoria e culture politiche” (Donzelli 2018), e che, non a caso, avrebbe dovuto trattare il tema dell’uso pubblico della storia; e Rubens D’Oriano, esperto e stimato archeologo sardo – più precisamente maddalenino – della Soprintendenza archeologica di Sassari e Nuoro, noto per le sue frequenti ed esplicite prese di posizione contro la fantarcheologia sarda. D’Oriano appunto ha svolto, con la sua solita brillante vis polemica, una relazione intitolata “La fantarcheologia come legittimazione del mito dell’identità culturale sardo-nuragica”, dove ha tentato di smontare tutte quelle ricostruzioni, secondo il suo parere, pseudostoriche sul periodo nuragico (gli Shardana, l’Atlantide sarda di Frau, la scrittura nuragica – nonostante le “aperture” di accademici sardi come Ugas e, soprattutto, Pittau -, l’origine sarda del latino, le “ricerche” di Marco Giulio Corsini etruscologo ecc.), ha deriso le dicerie relative al presunto complotto delle Soprintendenze per tenere nascosti Mont’e Prama e le sue statue, per poi concludere che non esistono – se non in quanto miti – le identità di popolo, creazioni politico-culturali ottocentesche, e men che meno esiste la pretesa identità nuragica dei/nei sardi contemporanei. Senza entrare nel merito degli argomenti di D’Oriano – non ho la necessaria preparazione per farlo – voglio solo citare un passo del padre dell’archeologia sarda, Giovanni Lilliu, scritto oltre quarant’anni fa illustrando i primi risultati di Mont’e Prama: “Così, se nel 1953 lamentavo che la cultura da villaggio protosarda non avesse fatto maturare dal piccolo Dedalo girovago che era il ramaio, il grande scultore e che alla Sardegna antica fosse mancata «l’effige del Principe Hem-hom, o il simulacro del Lugal-dalu di Adab o la Kore di Antenore», oggi possiamo affermare che l’isola dei nuraghi lancia la sfida, nella grande plastica, ai potenti paesi egizi, mesopotamici e greci“!!! Giovanni Lilliu!!!
Gli altri due relatori, cioè il professor Andrea Pubusa, docente di diritto amministrativo all’ateneo cagliaritano, e il dottor Diego Serra, giovane ricercatore sardo di diritto costituzionale comparato presso l’Università di Genova, invece storici o archeologi tout court non sono. Tuttavia, come si è appreso ascoltando l’intervento del Serra, lo stesso è autore di un ponderoso articolo pubblicato nell’ottobre scorso sulla rivista scientifica online “Zhistorica”, intitolato “Mont’e Prama: la Megalopoli dei veleni”, dove la ricostruzione della lunga e controversa vicenda di questo sito è spunto per affrontare il complesso tema del rapporto tra una consapevole (ri)scoperta delle proprie origini e la verità storica, intesa come ricostruzione fondata su dati scientifici e non sfalsata da revisioni politicamente orientate o da sensazionalismi di consumo massmediatico. E appunto di queste a suo dire fiabesche identità ed eredità etno-culturali nuragiche nei Sardi di oggi lo stesso ci ha parlato, non prima di aver dedicato una parte della sua relazione ai risvolti costituzionali e giurisprudenziali della ricerca e della corretta informazione e ricostruzione storica.
Ma l’aspetto che personalmente mi ha maggiormente disorientato e persino sconcertato è stata la conduzione tematica della conferenza. Infatti la moderatrice, introducendo i lavori, ha senza indugio svelato qual era il vero tema della serata: la Risoluzione approvata nel settembre scorso dal Parlamento europeo, sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa. Una risoluzione che, soprattutto in Italia, ha suscitato diffuso dissenso e molte critiche. C’è chi ne ha censurato la stessa impostazione, per cui la causa principale che «ha spianato la strada» allo «scoppio» della Seconda guerra mondiale sarebbe stato il Patto Molotov-Ribbentrop, che divise l’Europa in due zone d’influenza e sulla base del quale l’URSS di Stalin occupò, poco dopo, parte della Polonia, parte della Romania, parte della Finlandia e i tre stati baltici di Estonia, Lettonia e Lituania. Altri ha staffilato alcuni specifici passaggi, tra cui quello che sembra equiparare la “falce e martello” alla svastica nazista. In generale diversi storici italiani hanno definito – non a torto! – questa risoluzione una specie di rilettura molto semplificata di quel complesso periodo. Taluno ha parlato addirittura di vero e proprio revisionismo.
Tra le voci dissenzienti che più si sono fatte sentire c’è proprio l’ANPI, le cui ragioni Carla Cossu ha – lo ripeto – fin dall’inizio della serata ribadito con forza. Ma, se questo era il “punctum dolens” di cui l’ANPI oristanese voleva a tutti i costi parlare, perché non fare una conferenza proprio sulla “Storia, memorie ed identità europee: la risoluzione del Parlamento UE sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”? Sarebbe stato ugualmente interessante e, molto probabilmente, avrebbe attratto lo stesso numero di persone o, forse, anche di più. Ed avrebbe evitato sia a De Bernardi di modificare l’intervento preparato sul tema, sia al prof. Pubusa di svolgere una relazione bella sotto l’aspetto emozionale della sua memoria (il ricordo di un articolo di Luigi Pintor sul significato della vittoria sovietica di Stalingrado), ma discutibile dal punto di vista storico, fin dall’incipit: la vittoria sovietica di Stalingrado “decisiva per il destino di tutti noi europei”. Ora, senza nulla togliere all’importanza di quell’avvenimento bellico, che sul fronte orientale, con l’eccezione della successiva Operazione “Cittadella”, tolse definitivamente l’iniziativa alla Wehrmacht a favore dell’Armata Rossa, mi permetto di osservare sia che c’è stato un certo D-day, sia che, almeno per quanto riguarda la nostra Italia, l’avvenimento bellico che ne segnò la sorte fu El Alamein, fra l’altro alcuni mesi prima della resa di von Paulus.
Ancora, affermare come ha fatto il prof. Pubusa che “nel lungo periodo Stalin passerà alla storia proprio per la guerra patriottica che guidò fino alla vittoria” mi sembra quantomeno azzardato. Sicuramente in Russia sarà, anzi è già da tempo così, altrove … beh, non saprei. Così come può suscitare qualche titubanza la sua affermazione secondo cui tra i tre veri grandi padri della Repubblica, accanto a De Gasperi e a Nenni c’è Palmiro Togliatti.
Invero l’intervento più centrato di tutta la conferenza è stato quello di De Bernardi, che, parlando dello spirito alla base della citata risoluzione UE (votata anche da parecchi progressisti italiani, tra cui Pisapia) ha ribadito un concetto: in questa Europa che si vorrebbe delle nazioni e, soprattutto, dei popoli, non può esserci un’unica visione della storia, o una visione “migliore”, ma si deve muovere da un reciproco riconoscimento delle differenti memorie. La memoria del Novecento vista da Roma non può essere la stessa che c’è a Varsavia, a Praga o a Lisbona.
Entrando nel vivo del tema assegnatogli, De Bernardi ha ribadito con forza che “la storia non può essere separata dal suo uso pubblico. Tutta la storia – ha proseguito – è contemporanea proprio perché può essere utilizzata (io avrei usato il termine “piegata”) ad uso pubblico, così come, per esempio, fece il fascismo con la storia imperiale romana”. Del resto, secondo De Bernardi, la stessa genesi del lavoro storico è “un continuo dialogo tra il lavoro scientifico e le inquietudini provenienti dalla contemporaneità”: così due “storici” come Tucidide e Livio scrivono le loro opere, che noi definiamo appunto “storiche”, a difesa dei valori del loro mondo, proiettandoli come modelli universali!
Tutto ciò tuttavia – ha ribadito il De Bernardi – non esime lo storico dallo sforzo di separare, creando acconci anticorpi, la ricerca dall’uso strumentalmente pubblico che ne potrebbe derivare. Un esempio concreto è proprio quello della questione borbonica, con la quale, a prescindere dal valore storico degli argomenti, si intende far emergere un’altra memoria e con essa, soprattutto, un’altra identità.
De Bernardi ha poi esaminato forse il più importante esempio – almeno in Italia – di uso pubblico della storia, generante effetti fino ai nostri tempi: la “Storia della letteratura italiana” di Francesco De Sanctis, costruita sul presupposto almeno in parte fittizio, che l’Italia esistesse molto prima della sua unità politica “nazionale”. Il suo uso strumentale in un Paese diviso e frammentato, è evidente: infatti con essa si cercò di tenere insieme l’idea di una nazione con l’individuazione di una comune radice culturale, con una “biografia della nazione”, sulla quale si sono formate tante generazioni di studenti, di professori, di intellettuali, di italiani. Una biografia che, valida anche fino alla Prima guerra – la quarta guerra d’indipendenza! – ha trovato un primo scoglio nel fascismo, per il quale fu necessario trovare altre “narrazioni pubbliche”, contemporanee – quelle fasciste – e posteriori – soprattutto la marxista. Quest’ultima, in quanto ricostruzione di parte, ci ha lasciato quelle che De Bernardi ha definito “rimozioni forzate”, tra cui l’idea che il totalitarismo appartenenga esclusivamente ai fascismi. E qui lo studioso milanese ha, tra le proteste di Carla Cossu, chiuso il cerchio: “occorre fare una riflessione complessiva su tutte le forme di totalitarismo, evidenziandone le profonde differenze, ma nel contempo permettendo anche ai popoli dell’Europa orientale un riconoscimento memoriale”.