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Giovedi 12 dicembre, Oristano ha ospitato le presentazioni di due importanti lavori scientifici, ‘Matrici di storia: l’insediamento di San Giorgio di Sinis’ di Barbara Panico e ‘Il retablo perduto. Cronografia di un’ipotesi‘ di don Francesco Tamponi.
Il libro della Panico è stato presentato nella sede dell’UNO al Carmine dai docenti Raimondo Zucca e Piergiorgio Spanu, alla presenza dell’autrice, che proprio nella locale Università si è specializzata. Non a caso, al suo percorso di studi specialistici risalgono – come ha ricordato il prof. Spanu – le origini di questa impegnativa ricerca, poi proseguita, allargata e ampliata a tutto il Sinis.
“Quando ero ispettore della Soprintendenza di Cagliari – ha aggiunto Raimondo Zucca – ebbi in sorte di prendere in mano i primi materiali provenienti dal sito di San Giorgio, trovati da Gianni Pinna di Cabras, appassionato di archeologia. Tra questi un piombo di pergamena dove appariva il nome di Zerkis arconte, già noto dal Condaghe di Santa Maria di Bonarcado”.
Da allora le ricerche hanno portato a un più preciso e puntuale inquadramento storico di San Giorgio, dal nome dell’omonima chiesa, che probabilmente venne edificata sul sito di un precedente edificio di culto, sempre dedicato a questo santo guerriero, e che poi fu distrutta nel secolo scorso. Vicino alla chiesetta c’era anche una vasta quanto antica area cimiteriale. Il culto di San Giorgio megalomartire è originario dell’Oriente e non va confuso con quello locale di San Giorgio vescovo di Suelli.
Questo sito ha restituito una grossa quantità di materiali, tra i quali molti manufatti metallici, monete, fibbie, vassoi, brocche, uncinetti, pinze, armi, persino stampi, che farebbero pensare ad una produzione locale di tale oggettistica. Un ritrovamento cospicuo è stato quello dei sigilli, oltre ottanta, originariamente apposti su documenti ufficiali, locali ma anche di altri territori, Costantinopoli inclusa. Che dunque San Giorgio fosse sede di un archivio, riferibile a qualche autorità civile o religiosa di età bizantina, ormai è ben più di una semplice ipotesi di lavoro.
Del resto, benché ‘arco temporale dei ritrovamenti sia piuttosto ampio – dal II all’XI secolo d. Cr. – non a caso la maggior parte dei reperti è compresa tra il V e l’VIII. Evidentemente questo centro, dalle dimensioni ancora incerte ma sicuramente ben protetto dalle paludi e dunque meno esposto alle incursioni provenienti dal mare, crebbe progressivamente d’importanza, probabilmente a scapito di Tharros, proprio in epoca bizantina. Secondo Spanu, San Giorgio potrebbe essere proprio la tappa intermedia del cronologicamente lungo – quattro o cinque secoli – “processo di spostamento” di abitanti e funzioni amministrative e religiose, che porterà al definitivo abbandono di Tharros ed allo sviluppo di Oristano, che ne erediterà ruolo e funzioni.
Il lavoro della Panico, che costituisce il sesto volume della collana “Tharros felix”, iniziata – come ha ricordato Zucca – “nel 2005 con ‘Mare Sardum’, dedicato proprio agli insediamenti costieri della Sardegna, alle loro tipologie, ai paesaggi costieri o oggi sommersi e poi immediatamente proseguita con l’edizione preliminare della prima campagna di ricerche nell’area del cosiddetto Korakodes portus (Cala Su Pallosu, Marina di San Vero Milis)”. Questo sesto volume dunque aggiunge un ulteriore, importante tassello nella ricostruzione dell’evoluzione storica di questa importante porzione del territorio isolano, che – è proprio il caso di dirlo – trasuda storia in tutti i suoi angoli.
“Non si tratta – ha aggiunto Spanu – di un mero catalogo di reperti, che, tra l’altro, non provenendo da scavi, bensì da ritrovamenti occasionali di superficie, hanno richiesto un di più di fatica per il loro inquadramento e la datazione soprattutto attraverso confronti con similari manufatti di altri siti anche molto lontani dalla Sardegna. ‘Matrici di storia’ infatti propone una approfondita lettura storica di questa realtà urbana, rappresentando insieme un punto d’arrivo e, insieme, di partenza per ulteriori ricerche nell’area in questione e in quelle viciniori”.
Da parte sua Barbara Panico ha voluto rimarcare sia l’impegno profuso in questa ricerca sia la volontà di proseguirla, non appena saranno disponibili gli altri manufatti di San Giorgio attualmente sottoposti a restauro nel Centro Restauro di Li Punti.
Il libro ‘Il retablo perduto’ invece è stato presentato all’Antiquarium Arborense, dall’autore e, ancora una volta, da Raimondo Zucca, nel ruolo di padrone di casa. Don Francesco Tamponi, sacerdote dal 1986, con un percorso di studi universitari e specialistici alla Cattolica di Milano, alla Facoltà teologica di Cagliari e alla Facoltà di Liturgia pastorale di S. Giustina a Padova, è direttore dell’Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici della Diocesi di Tempio-Ampurias, nonchè rappresentante della stessa all’interno della Consulta per il Patrimonio Ecclesiastico della Sardegna. Inoltre è incaricato della CES (Conferenza Episcopale Sarda) per i Beni culturali ecclesiastici e la nuova edilizia di culto.
Intanto quale sarebbe il retablo perduto e poi, evidentemente, ritrovato? Si tratta del retablo che dagli ultimi anni del XV o dai primi del XVI secolo e per circa un secolo avrebbe costituito il principale ornamento dell’altare centrale della nuova Cattedrale di Castelsardo, dedicata a Sant’Antonio abate, edificata proprio a cavaliere tra Quattrocento e Cinquecento. L’intuizione ha avuto una sua lontana origine dalla lettura della relazione di Petro Matheo, segretario del vescovo Miguel Rubio, in occasione della visita pastorale del 1581. Questo scritto in cui emerge evidente la preoccupazione per il disastroso stato in cui il vescovo aveva trovato l’importante edificio di culto, descrive nei particolari la pianta della struttura, con l’aula liturgica e le otto cappelle laterali, citando in particolare un Sant’Antonio “esposto”. Ma nel 1581 nessuna delle cappelle minori era dedicata a Sant’Antonio abate. Evidentemente il santo era esposto nell’altare maggiore, molto diverso da quello attuale.
Monsignor Rubio, che aveva in animo di restaurare o addirittura di costruire ex novo il duomo di Castelsardo, non riuscì a dare concreta realizzazione alle sue intenzioni prima della sua dipartita nel 1585. Questo compito lo portò avanti il suo successore, il francescano Juan Sanna Porcu, grande riformatore della sua diocesi e della stessa chiesa sarda.
Il Sanna Porcu ristruttura ed ingrandisce la cattedrale, edificando altre due cappelle. Ma soprattutto aggiorna la disposizione di immagini e arredi dell’altare maggiore al nuovo rito cattolico postconciliare. Al centro del culto ora avrebbero dovuto essere posti e raccontati i misteri della fede, e non i santi. Allora, se, come ipotizzato, l’altare maggiore ospitava un retablo che vedeva al centro la statua di Sant’Antonio, allora proprio questo retablo potrebbe essere stato smembrato e le sue parti riutilizzate sempre all’interno del duomo, nelle nuove cappelle (tra cui quella dello Spirito Santo) o in altri locali (sacrestia ecc.).
Don Tamponi ha così puntigliosamente elencato i vari vescovi e le fabbricerie, che hanno caratterizzato la storia edilizia di S. Antonio abate ed, in particolare, le sue cappelle, affiancandovi la destinazione delle varie parti del retablo smembrato, che “vagavano raminghe all’interno della stessa chiesa fino all’incendio che nel 1951 devastò la cattedrale e ne distrusse significativi segmenti. Tuttavia anche “grazie a moderne tecniche di indagine, come la spettrografia raman utilizzata per l’analisi e la comparazione dei pigmenti, siamo riusciti – ha sottolineato Tamponi – a ricostruire in maniera sicura l’aspetto e la disposizione del retablo e a dare al cosiddetto Maestro di Castelsardo una definizione artistica molto diversa da quella tradizionale”.
Sull’anonimo Maestro di Castelsardo si è scritto molto ma senza giungere mai ad una neppure ipotetica biografia. Sardo (un Cavaro, magari il capostipite?), Catalano, sardo formatosi in Catalogna, ma in grado di recepire ed assimilare – come? – influssi e riferimenti italiani e fiamminghi. Secondo Tamponi è innanzitutto da respingere la proposta fatta da Luigi Agus circa un’epigrafe che sarebbe presente nel bordo dello scudo dell’arcangelo san Michele di Castelsardo, letta come “Iaxi”, “Gioacchino” o “Giacomo” e quindi anche la sua ricostruzione della figura del Maestro e della committenza di queste sue opere. Tamponi invece, facendo riferimento alla stessa imponenza di questo retablo – circa sei metri d’altezza al centro e poco meno di cinque metri di base, escluse cornici e paraste, dunque molto più grande di quello di Tuili –, e alla sua qualità di realizzazione, che presuppone una spesa davvero importante, riporta lo stesso alla traslazione – principio XVI secolo – della cattedra episcopale dall’ormai decaduta Ampurias a Castelgenovese, dove era stata appunto eretta una nuova cattedrale, per decisione dei sovrani spagnoli sancita dall’allora Pontefice Giulio II. Inoltre assegna al retablo anche la coeva statua lignea di Sant’Antonio abate, per cui all’intero retablo dovrebbe essere riconosciuto il nome di “Retablo di Sant’Antonio”. Per quanto riguarda l’autore, le dimensioni dell’opera e la sua complessità esecutiva fanno propendere per un lavoro a più mani ciascuna specializzata (coloritura, doratura, ecc.): forse un lavoro di bottega sotto la direzione di un “Maestro”, e con la presenza di un valente scultore, l’autore della statua di Sant’Antonio.