‘HAMMAMET’ DI GIANNI AMELIO [ADRIANO SITZIA]

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A chi, come me, inizia a sentire un po’ pesante la bisaccia degli anni, Bettino Craxi non potrà mai essere uno sconosciuto. Anzi tanti ricordi, fatti da e di immagini, tribune, congressi, titoli a caratteri cubitali, battute, vignette, personaggi televisivi, volti di uomini politici e non, maschere, comici, cabarettisti, cantanti, starlet varie, luoghi, colori suoni, vi sono intimamente legati o collegati.
D’altronde l’imponente statista milanese fu un grande protagonista della storia recente del nostro Paese fin da quando, scalzato l’ormai vecchio De Martino, prese le redini del PSI tenendole saldamente in mano per oltre 15 anni, cancellò progressivamente tutte le opposizioni interne, soprattutto dopo la morte (1984) del suo ultimo, irriducibile avversario, quel Riccardo Lombardi che lo aveva accusato senza mezzi termini di
Fuhrerprinzip, e poi riuscì pure a “conquistare” Palazzo Chigi! Forse fu proprio la mancanza di una vera opposizione interna a segnare negativamente, oltre a quello del PSI il suo stesso destino politico – come del resto è accaduto ad altre figure maniacalmente legate alla monocrazia – e, soprattutto, personale, dal momento che politica e vita in Bettino Craxi sono state una cosa sola (“uno fa quel che è”, avrebbe detto il detective-profiler Alex Cross).
Dicevo che dell’epoca craxiana tante cose possono facilmente tornare alla mente: per esempio il garofano o il saggio su Proudhon – si dice però dovuto soprattutto a Luciano Pellicani – o la sfida al PCI di Berlinguer; Ghino di Tacco; la “Milano da bere”, che da slogan pubblicitario di un noto amaro alle erbe divenne etichetta della Milano socialista di Craxi, Tognoli e Pillitteri; o i famosi – almeno all’epoca – locali milanesi come il Vogue, il Number One di Gigi Rizzi, lo Studio 54, il Plastic; l’attico di viale Coni Zugna; le quasi 700000 tessere socialiste; le critiche di Norberto Bobbio. E poi gli altri protagonisti del suo PSI: il delfino Martelli, il “dottor sottile” Amato, De Michelis, Formica, Manca, Forte, Capria, Signorile, don Gianni Baget Bozzo, ecc. ecc. fino a Sisinnio Zito. Ancora, gli scenografici congressi disegnati e realizzati dall’artista Filippo Panseca. E poi il Concordato, Sigonella, Beppe Grillo, il CAF, “Mani pulite”, il Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, Corrado Guzzanti, … … …. Insomma questa e tanta altra “roba”. E in tutto ciò la metamorfosi di un partito e di una cultura politica, che lasciate definitivamente le tranquille ma poco pescose acque della sinistra, affrontò odisseicamente l’agitato e però anche ricco oceano della modernità occidentale, o, come allora causticamente si disse, passò “
dal basco di Nenni alle mutande di Trussardi”.
Perciò non solo volevo ma dovevo vedere il film “Hammamet”. Curiosità certo ma soprattutto possibilità di confronto con il ricordo di quegli anni, di quel periodo cruciale che, peraltro, ha malamente concluso la stessa Prima Repubblica. E, poi, voglia di parlarne, di scriverne.
Tuttavia, dopo aver visto il film, ho deciso di prendermi alcuni giorni di riflessione  prima di mettere nero su bianco le mie impressioni. L’ho fatto sia per evitare di influenzare in qualsiasi modo ulteriori potenziali spettatori – io stesso, prima della visione ,avevo evitato di leggere o ascoltare qualsivoglia commento – sia per rivedermelo mentalmente e meditarci su. Premetto che questa non è una vera e propria recensione – non sono né un critico né un cineasta! – ma solo un insieme, anche un po’ disordinato, di personali pensieri e note. Avviso poi i lettori che non ho potuto fare a meno di confrontare ‘Hammamet’ con ‘Il Divo’ di Sorrentino, l’unico altro
biopic, insieme ad ‘Anno Uno’ di Rossellini (su De Gasperi), che il cinema italiano – non considero i tv movie – ha dedicato ad un protagonista della nostra prima Repubblica.
Beh, voglio subito sottolineare che di tutto l’elenco di ricordi di cui in premessa, nel film di Amelio non c’è traccia se non nella scena iniziale in cui un Craxi trionfante dopo la conclusione del XLV Congresso del PSI – per intenderci, quello della ormai celebre piramide di Panseca! – si confronta con un misterioso Segretario amministrativo del PSI, sorta di collodiano grillo parlante. Il resto del lungometraggio è insieme un monologo dell’ex leader “sovrano deposto ed esiliato” in quel di Hammamet e ormai al termine della sua parabola terrena, ed una sorta di studio d’artista per una qualche futura opera scultorea dello statista socialista. A questa idea mi hanno portato non solo il lavoro fatto da e su Favino – eccellente la sua performance recitativa – per darci nella pellicola un Craxi quanto più fedele possibile all’originale (aspetto, voce, gesti, tic, ecc.) quanto il ricorrere quasi ossessivo da parte della regia ad inquadrature della sua figura, non solo i soliti italici primi piani – in questo caso davvero tanti – ma un vero e proprio campionario di “ritratti” un po’ da tutte le posizioni e le distanze.
Quanto al monologo craxiano, esso mi sembra tale innanzitutto perché pochi sono gli interlocutori, per di più ridotti a fare da “spalla” al protagonista e, soprattutto, resi come personificazioni astratte di ruoli drammatici (abbiamo il Segretario amministrativo ed il di lui Figlio “strano”; il Politico democristiano; l’Amante). La stessa figlia, a cui, non so perché, è stato dato il nome della nipote (Anita), nell’economia del film ha un ruolo ancillare, come fedele custode e guardiana del padre-statista Craxi. Comparse o poco più sono gli altri familiari. Dunque di quell’
impero teocratico dove comanda uno solo – per usare una battuta del ‘Divo’, che fu il PSI craxiano, in ‘Hammamet’ non c’è alcuna traccia, che non sia appunto lui, Bettino Craxi.
E com’è ‘sto Craxi di Amelio? Malato, sofferente ma, insieme, arrabbiato e istrionico fino all’ultimo, non è sicuramente il Benedetto Craxi, nato a Milano nel 1934, segretario del PSI dal 1976, presidente del Consiglio ecc., ma diventa un personaggio tragico, che nel momento del crepuscolo come potente e come uomo, osservando le sue cicatrici – nel film spesso in primo piano – difende strenuamente,
hybris o non hybris, la sua biografia, il suo operato, e, soprattutto, la sua – come dire? – “ragione politica” di fronte a qualsiasi dubbio morale. E in procinto di affrontare senza più timore la sua ultima battaglia, quella finale, contro il nemico che nessun mortale può sconfiggere, mi ha ricordato persino il Giovanni Drogo buzzatiano, altro tragico personaggio letterario.
Amelio dunque ha accuratamente evitato di entrare nell’agone delle vicende storiche, sottraendosi ad ogni rischio di polemica. Il risultato del suo sforzo è un’opera calligrafica, formalmente ineccepibile, quanto inutilmente prudente, certamente sterile dal punto di vista storico nonché impalpabile nel contesto della riflessione sulla politica, o, meglio, sul fare politica, cioè proprio quel “sangue e merda” con cui un protagonista del PSI craxiano, il “commercialista di Bari” Rino Formica, a suo tempo ne definì concretamente il senso. Dunque una pellicola che, dopo l’inevitabile e “pompata” anteprima tv, credo che finirà nel dimenticatoio, a parte occasionali riproposizioni in qualche canale tematico. Ma forse è ancora troppo presto per avere film o lavori storiografici approfonditi ed equilibrati su quel periodo e sui suoi protagonisti.