Sulla “riforma” (sic!) costituzionale oggetto dell’imminente referendum, ormai si è discusso abbastanza, anche se spesso confusamente, soprattutto da parte dei sostenitori del “SI”, usi ad adoprare la tecnica della “macedonia” (ammassare alla rinfusa quante più cose possibile, attinenti o meno, purché in qualche modo utili a dimostrare la propria tesi). Perciò non so quanto possa essere efficace un ennesimo intervento. Tuttavia uno spazietto per qualche breve riflessione di “buonsenso politico” su tutto ciò – e non è poco – che si è visto, che è stato detto, che è stato scritto, forse è ancora possibile trovarlo.
Parto da una considerazione che ho sentito fare da persone orientate all’astensione, e cioè che la scelta è tra la padella e la brace e che, per quanto riguarda la Sardegna, in sostanza non cambia niente, se non nove lauti stipendi e nove vitalizi in meno almeno nella prossima legislatura. Purtroppo – e sottolineo “purtroppo” – un giudizio duro come questo trova alimento nella – come dire? – scarsa rilevanza dell’azione politica di tanti rappresentanti sardi del presente e del passato a Monte Citorio e a Palazzo Madama, e nel loro poco peso specifico. Un esempio? Il piano industriale delle ferrovie italiane, su cui oggi si è soffermata L’Unione, dove la Sardegna è praticamente assente, mentre le tratte – sicuramente molto più redditizie! – Napoli-Bari e Messina-Catania-Palermo nonché le direttrici Adriatica e Tirrenica sud si prendono quasi tutti gli investimenti previsti per il Mezzogiorno, circa 17 miliardi e mezzo! A tutto ciò si aggiunga la difficoltà, sempre più palese, della politica italiana e ancor più di quella sarda – di tutti i colori e a tutti i livelli – di affrontare una crisi interminabile e sempre più grave, e, nel nostro caso, un ben più che geografico isolamento, varando tempestivamente vere riforme o, almeno, interventi efficaci nel tempo e nella portata. Evidentemente il vecchio ma ancora molto praticato gioco dello “scaricabarile” convince sempre meno cittadini, ormai stanchi, sfiduciati e, forse, persino rassegnati all’italico declino, e, ancor di più, al patologico regresso sardo.
Tuttavia chiaro nella sua banalità appare il quesito che dovrebbe invece indurci e condurci ad andare ai seggi per votare “NO”: “soltanto” 16 parlamentari “selezionati” staracianamente, dunque irrimediabilmente condannati all’anonimato ed al “signor sì”, potranno davvero fare meglio degli attuali 25 e rappresentare al meglio tutte le varie “regioni” sarde e non soltanto le solite “città metropolitane”, che li esprimeranno quasi in blocco?
A tal riguardo poi non può sfuggire il fatto che questa “riforma” (sic!) ci è stata propinata come un colpo decisivo alle odiate caste politiche, responsabili della disastrosa situazione italiana, ed, insieme, un modo per selezionare appunto “meglio” i parlamentari. Ma, anche in questo senso, oltre a rilevare che anche chi – M5S – vessillifero dell’anticasta, una volta entrato nelle stanze del potere, s’è comportato come i suoi predecessori “castisti”, non si possono tacere tutti i forti dubbi, che – inevitabilmente – sorgono. Infatti proprio un numero di rappresentanti così ridotto, non può far altro, a mio parere, che favorire un maggiore controllo degli stessi da parte delle segreterie partitiche, sia nel momento della “scelta” dei nomi o della composizione delle liste, sia in quello del mandato parlamentare vero e proprio. Dunque certamente non si promuoveranno i “migliori”, semmai, e ancor più di oggi, i più affidabili e/o i più “fedeli” ai capi.
Domanda: perché, invece, da parte della politica “alta” si elude (quasi) sempre il tema, cruciale, dello stato di salute dei partiti, della loro democraticità interna, della possibilità reale e a 360 gradi di partecipazione democratica di tutti i cittadini dentro i medesimi?
Ulteriore rilievo: ad alcuni sostenitori del “NO”, per intenderci a coloro che auspicano finalmente una vera stagione “ri”costituente con una riforma complessiva del sistema (attraverso almeno un’assemblea Costituente e non solo i lambiccamenti di Calderoli, Patuanelli, Romeo, Quagliariello e soci), è stata rivolta l’accusa di “benaltrismo”: in soldoni, quando si tenta di fare qualche riforma, ancorché tale solo per etichetta, voi signori rispondete sempre “NO-NO” perché … “serve ben altro”! Intanto anche solo l’idea che una cattiva riforma sia comunque meglio di niente è perlomeno discutibile. Perlomeno! Lo è in generale e lo è ancor di più quando si interviene su quella che è “la legge delle leggi”: la Costituzione! Ancor peggio poi se, come in questo ed in altri recenti casi, le riforme costituzionali, peraltro sempre naufragate alla prova referendaria, appaiono il risultato di una strategia politica volta a strumentalizzare la Costituzione, tentando cioè di modificarla, di volta in volta, secondo determinati interessi: interessi pertanto transitori, nella misura in cui coincidono con gli obiettivi – quando non con le necessità – di chi, in quel preciso frangente, ha la maggioranza o sta nella maggioranza. Insomma quel che si dice “riforme di parte”.
Un altro aspetto che voglio affrontare muove da un dubbio, non solo mio: può essere definita “riforma” quello che a tutti gli effetti è un “semplice” quanto sproporzionato e persino irragionevole taglio, tale da dare un pesante colpo di scure alla stessa rappresentatività delle Camere? Infatti, anche senza considerare il salto nel buio per quanto riguarda il funzionamento del Parlamento oppure le nomine che spettano al Parlamento, dal Capo dello Stato, ai Giudici costituzionali, ad una parte del CSM, o ancora le future revisioni costituzionali ex articolo 138, questo taglio non interviene affatto su competenze ed attribuzioni delle Camere; invece mutila e forse “sfregia” l’istituzione parlamentare.
Metto da parte il discorso della sfuggente riduzione dei costi della politica, non solo e non tanto per la portata irrisoria della stessa, quanto perché le sue conseguenze – nefaste! – le abbiamo già sperimentate con la faccenda “province”, e, soprattutto, perché continuo a considerare atto grave e pericoloso il depotenziare le istituzioni fondamentali della nostra democrazia (rappresentativa!!!) “solo” per esigenze di risparmio, oltretutto – ripeto – risibili nella loro portata.
Per quanto invece concerne i “numeri” pletorici delle nostre Camere ed il loro confronto con i parlamenti degli altri Paesi – la ormai ben nota classifica immancabilmente proposta dai sostenitori del SI’ (vedansi social) e fatta utilizzando scientificamente la succitata tecnica della macedonia – l’approccio corretto per questi confronti non può certo escludere tutta una serie di parametri fondamentali, quali per esempio la popolazione dei singoli Paesi e il rapporto eletti/elettori, o le specificità che caratterizzano il tipo di Stato (federale, fortemente decentrato, molto “accentrato” ecc.) e la forma di governo (monarchia, repubblica presidenziale, semipresidenziale, parlamentare) dei Paesi considerati. Questo – ovviamente! – perché composizione, ruolo, compiti e rapporti del Parlamento con gli altri organi dello Stato mutano in base al sistema di cui queste assemblee fanno parte. In tal modo, per esempio, viene meno il parallelo tra il taglio italiano e le proposte di regolamentazione del numero di parlamentari nel Bundestag, asceso dai 598 previsti dalla normativa agli attuali 709 – + 111! – a motivo del numero sempre crescente – soprattutto dopo il consistente calo elettorale dei tre partiti storici e l’affermarsi, accanto a questi, di diverse altre forze politiche – dei cosiddetti “seggi extra” (Überhangmandate) previsti dal particolare quanto complesso sistema elettorale tedesco ma non dal nostro!
Ancora, le riduzioni del numero dei parlamentari finora proposte e a cui i nostri attuali “padri costituenti” si richiamano, a ben guardare non sono mai state una cosa a sé stante, ma sono sempre state inserite appunto in progetti di riorganizzazione complessiva, ivi compresa dunque l’istituzione parlamentare: si pensi per esempio alle proposte di trasformazione del Senato in assemblea rappresentativa delle amministrazioni territoriali.
Non entro nel complesso problema della rappresentanza politica, che, per chi – legittimamente, si badi bene! – considera irrilevante il rapporto elettore-eletto, o, meglio, rappresentante-rappresentato, peraltro evidentemente neppure si pone. Forse per costoro andrebbe bene persino quanto ci dice il celebre brocardo, che “tres faciunt collegium”!
Invece, a mio avviso, prima di “tagliare” in questo modo quello che è il luogo di massima espressione della rappresentanza politica nazionale, si deve pensare alla pluralità, varietà e complessità della società italiana, e, dunque, alla necessità di dare voce alla più ampia platea possibile di interessi sociali e, aggiungerei, “nazionali” (in primis quelli della Nazione sarda) e in genere territoriali.
Conclusione: NO a cambiamenti come questo. Invece occorre, finalmente e senza indugio, lottare per avviare una fase costituente a tutti gli effetti, in grado di darci un nuovo modello di Stato e di amministrazione. E, contemporaneamente, è necessario ricostruire veri partiti, aperti, partecipati, radicati e vitali. In Italia ed in particolare in Sardegna!