In questo ennesimo periodo di “zona rossa” – “rosso sangue” direi con tutti i morti che purtroppo continuano a riempire gli obitori – , che sta caratterizzando la ricorrenza natalizia e che sigillerà anche il 2020, la lettura può diventare un caldo cantuccio in cui rifugiarsi per sfuggire, almeno per qualche ora, alle minchionate mediatiche, che sempre più insopportabilmente ci assediano. In tal senso, per quanto mi riguarda, è arrivato in soccorso – a sorpresa! – un libro, un romanzo dal titolo enigmatico: ‘Senza il mio nome‘. “A sorpresa?” ergo si tratta di un regalo natalizio, si dirà. No, in questo caso i doni sotto l’albero, che non ho fatto, c’entrano … niente. La sorpresa, infatti, è l’autore di questa opera narrativa: Gianfranco Obinu. “Carneade! Chi era costui?”. Beh, intanto, caro Don Abbondio, non “chi era?” ma “chi è?”. E’ stato oristanese per tutta l’infanzia e l’adolescenza, facendovi le scuole dell’obbligo e le superiori. Poi università a Casteddu. Infine trasferimento nella penisola per lavoro. Così ormai da qualche decennio Gianfranco è un “continentale” a tempo pieno. Ma soprattutto il neo-scrittore ha condiviso con me i primi tre anni di studio al Liceo Ginnasio oristanese ‘S. A. De Castro’. Anzi con lui e alcuni altri amici si creò un vero e proprio gruppo di studio ma anche, quando i famigerati, immancabili “compiti a casa” ce lo consentivano, di sport, musica, cinema e quant’altro, in cui, in un clima di leale e collaborativa concorrenza, cercammo sempre di migliorarci. Dal punto di vista scolastico, i risultati in effetti furono più che sufficienti. Poi – ahinoi! – intervenne quella che da tanti è considerata il miglior ministro dell’istruzione dell’Italia repubblicana – ovviamente senza considerare l’Azzolina, davvero hors categorie -, la senatrice romana Franca Falcucci, a rompere il giocattolo, con un provvedimento decretante la cancellazione per “insufficienza di iscritti” della nostra classe, la 2D, e la conseguente ripartizione dei suoi studenti (almeno di quelli rimasti) tra le altre tre “seconde”, diventate così “classi pollaio”. Eh sì, accadeva persino (sic!) allora, nonostante la crescita demografica molto maggiore di oggi.
Così il D-team fu diviso ed inevitabilmente la coesione pian piano venne meno.
Ecco perché l’essermi trovato, all’improvviso e a distanza di tanti anni, di fronte all’opera prima, fresca di stampa, di un ex compagno di scuola, ora scrittore, ha subito destato il mio interesse, anzi una sorta di prepotente curiosità.
Chiedo scusa per questa lunga e, forse, tediosa premessa, peraltro necessaria per meglio comprendere ciò che dirò su questo romanzo, che dal punto di vista formale e strutturale è figlio legittimo dei nostri tempi: infatti presenta uno stile scorrevole come la superficie ben levigata di un marmo, e un periodare agile, fluido, seppure in alcuni passaggi oserei dire “nervoso”. Il lessico, a parte alcune concessioni alla terminologia medica, è anch’esso moderno, facilmente fruibile, atto ad una lettura senza distrazioni da dizionario (io l’ho finito in poco più di cinque ore senza stancarmi).
A raccontare la storia è il “classico” narratore esterno, quello che chi ne sa definisce “extradiegetico”. Ed è anche un narratore “onnisciente”. D’altronde non poteva che essere così principalmente a motivo del suo rapporto, diciamo pure piuttosto “stretto”, con lo scrittore stesso e con il suo “alter ego” protagonista. Ovviamente un lettore – come dire? – generico, dunque non informato dei fatti, leggerà la storia immaginandola risultato della fantasia di Obinu; ma chi ha conosciuto l’amico Gianfranco vi scorgerà certamente luoghi, situazioni, persino dettagli, quantomeno familiari. D’altronde lo stesso autore mi ha parlato di “intreccio indistricabile” di vita e fantasia, il che mi pare definire appropriatamente il suo romanzo.
La struttura della composizione si potrebbe definire ad anello, in quanto il racconto prende l’avvio da un evento procedendo poi a ritroso, anche se in maniera non cronologicamente ordinata, per poi chiudersi con un altro identico evento, con però diverso protagonista. Motore della storia risulta essere il rapporto padre-figlio, con tutto ciò che ne consegue per quanto riguarda la personalità e la vita stessa del genito rispetto a quanto ricevuto dal genitore. Un tema alquanto frequentato sia in letteratura sia nelle normali chiacchiere tra persone di ogni età. Del resto gli anni della formazione psico-fisica sono quelli che si ricordano di più e meglio, proprio perché incidono profondamente, lasciano il segno, tanto che, non di rado, i difficili rapporti familiari, se non proprio i conflitti, sono chiamati in causa – a ragione o a torto – per giustificare biografie mediocri, esistenze difficili quando non disastrose.
In ‘Senza il mio nome‘ il protagonista rimprovera costantemente al padre un’algida, insensibile “distanza”; e gli rinfaccia la mancanza di coraggio e una conseguente esistenza appiattita dai compromessi, che gli hanno – o avrebbero – tarpato le ali, condannandolo ad una irrimediabile anche se lenta discesa nel buio dell’insoddisfazione e poi della depressione. Coraggio che invece al protagonista “senza nome” – dice lui, o meglio, il narratore – non sarebbe mai mancato già nell’affrontare – persino fisicamente – i genitori, ma anche nell’opporsi, ragazzetto gracile e minuto, ai torti ed ai prepotenti, persino quando la sproporzione fisica avrebbe consigliato più diplomatici comportamenti. Così come non gli sarebbe mai mancata una insopprimibile vivacità nel godere della vita, delle sue gioie ed opportunità, una vispezza nel voler essere comunque se stesso, nell’amare in fondo tutti (o quasi), insomma nel segnare con il proprio marchio di fabbrica gli eventi della sua esistenza. C’è da credergli? Forse sì forse no, forse …. Per esempio anch’egli certi compromessi li ha accettati, (magari) a modo suo (ma) li ha accettati. E quel particolare, caratteristico, personale filo conduttore, che avrebbe dovuto legare gli eventi della sua esistenza, alla fine lui stesso pare concedere di non trovarlo più. Evidentemente tutto rimane … sospeso persino alle porte dell’erebo.
Un racconto che lascia il lettore di fronte a quesiti di (forse/almeno?) difficilissima soluzione? Mah! Forse la realtà delle persone è come una moneta: ha (almeno!) due facce. In una moneta, se si guarda solo il recto si può vedere l’autorità emittente, ma non il valore; se si guarda soltanto il verso si legge il valore ma non chi lo garantisce. Per poterle vedere insieme occorre sforzarsi, industriarsi. Allo stesso modo immagino le persone e lo sforzo che occorre per potersi/-le, quando è possibile, decifrare e conoscere, al di là di ciò che appare, della forma, dell’apparenza. Forse la vera domanda è: ma è davvero utile e ha davvero senso cercare un senso nella (propria/altrui) vita, in se stessi o nell’altro? Oppure è meglio vivere senza pensare troppo, senza stare a cercare ciò che magari non c’è, perché non può esserci? Come si sarebbe esclamato da queste parti qualche decennio indietro, “boh!”.
In sintesi, un libro che rispecchia la personalità del suo autore, il suo temperamento esuberante ma con qualche tratto aspro e nubiloso, il suo carattere gioviale ma anche velato, fin da ragazzo, da una certa inquietudine; dunque un libro serio ma godibile. E per chi, come me, in certo senso ha vissuto dentro la cornice ambientale, in cui si svolge parte della storia, un’occasione per riaprire qualche cassetto della memoria, per andare indietro nel passato, di cui, nel bene e nel male, ciascuno di noi è, inevitabilmente, il risultato.
GIANFRANCO ONATZIRO’ OBINU, Senza il mio nome, PortoSeguroEditore 2020