Lo scorso decennio aveva visto rinascere in Sardegna un rinnovato interesse “nazionalitario”, esplicitatosi nello sbocciamento di diversi movimenti così caratterizzatisi e nel recupero di politici, studiosi ed intellettuali del passato che avevano affrontato questo tema. Tema che, ancor oggi, almeno per una importante parte dell’opinione pubblica isolana, sembra restare tabù. Contemporaneamente erano sorti anche movimenti che, invece, avevano rispolverato alcune proposte specifiche, già in passato portate all’attenzione di politica e cittadinanza. Mi riferisco soprattutto all’idea della zona franca, e, soprattutto, all’insularità in Costituzione. Quest’ultima è diventata, dopo l’abolizione delle province, il vessillo del partito dei Riformatori sardi, per essere successivamente “adottata” da tutte o quasi le forze politiche sarde e sardo-italiane rappresentate in Regione e nel parlamento romano, insieme a quelle siciliane, tanto da farne oggetto di una “legge di iniziativa popolare”, che ha raccolto più di 200.000 firme.
Già questa unità d’intenti ha immediatamente fatto sorgere in coloro a cui, invece, stava a cuore almeno una ben diversa riforma dello Stato – nella quale cioè inserirvi il riconoscimento “a tutto tondo” della specificità sarda – igienici dubbi sulla reale portata di tale modificazione costituzionale. Dubbi resi ancor più concreti dal fatto che tale principio aveva già abitato nella Carta fondamentale italiana almeno fino alla riforma del suo Titolo V (2001), senza aver mai lasciato visibile e concreta traccia della sua efficacia; e, ancor di più, dal fatto che, tolti alcuni cambiamenti lessicali, della cui valenza effettiva e positiva ad oggi poco si può dire, non si riesce ad individuare alcuna soluzione di continuità rispetto a “su connottu”. Infatti, se non ricordo male, la suddetta proposta di legge costituzionale, così come è stata modificata in Parlamento, introdurrebbe un comma aggiuntivo all’articolo 119 della Costituzione, in base al quale la “Repubblica” – e non solo lo “Stato”, mah! – «riconosce le peculiarità delle Isole» – dunque non solo della Sardegna! – e «promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità». Si tratta, evidentemente, della statuizione di un ennesimo intervento pubblico, stavolta costituzionalmente garantito e “compensativo” – ancora non si può sapere ma, come si sono affrettati a sottolineare alcuni dei suoi paladini, “scevro da qualsiasi forma di assistenzialismo”! – che, tra l’altro, in assenza di norme attuative, non ci consente di individuare i settori oggetto di intervento. Tuttavia, una cosa è chiara: ancora una volta c’è uno che dà – o, sarebbe il caso di dire, dovrebbe dare – e uno che, se le cose dovessero andar tutte bene, potrebbe ricevere. Traduzione pratica: in un Paese in perenne grave difficoltà finanziaria, chi ndi dengiu ti ndi giau – agoa bieus cantu – chi non di dengiu ti attaccasa! Signori, tutti a Roma, davanti a Palazzo Chigi, bonetteddu in manu! Sperando che, come in passato spesso è accaduto, gli amici siciliani non arrivino prima!
Ora, a parte queste considerazioni da “conti della serva”, che, peraltro, in un contesto simile sono inevitabili anzi obbligatorie, resta in piedi il quesito più importante: che cosa cambierà per la Sardegna, nel suo rapporto con lo Stato italiano o, se volete, con la Repubblica italiana, invocata in questa riforma? A mio avviso, assolutamente niente!!! E, infatti, chi perora la causa dell’insularità, su questo aspetto tace. Invece la vera battaglia, la vera “rivoluzione copernicana” per la Sardegna deve andare in opposta direzione: ciò significa avviare un percorso “nazionale sardo” avente come fine un nuovo patto con lo Stato/Repubblica italiano/a, in cui sia finalmente riconosciuta e sancita la specialità della Sardegna, il suo “carattere” eminentemente particolare nell’ambito italiano, e, conseguentemente, trarne i poteri che ne permettano – finalmente! – un’adeguata valorizzazione. Questo percorso non può non cercare di avere anche acconcia e corrispondente risonanza europea. Contemporaneamente, occorre muoversi per disegnare anche un nuovo modello di amministrazione interna della stessa Sardegna, in grado di riequilibrare la condizione tra le sue diverse regioni storiche, e di permettere a tutti i Sardi – sottolineo “tutti i Sardi”!!! – di avere eque possibilità di avvenire: ciò significa innanzitutto il superamento dell’attuale centralismo regionale.