L’8 MARZO E IL TRAMONTO DEL 28 APRILE [ADRIANO SITZIA]

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Quando l’ONU nel 1977 decise di proclamare l’8 marzo ‘Giornata internazionale dei diritti della donna‘, non fece altro che dare un probabilmente tardivo imprimatur ad una ricorrenza che aveva alle spalle almeno 70 anni di storia, di battaglie, di vittorie e di sconfitte. Risale infatti al 1909 – esattamente il 23 febbraio – il primo ‘Woman’s Day’ statunitense, seguito ben presto da analoghe giornate in diversi paesi europei e dal 12 marzo 1922 quando, per iniziativa dell’allora giovanissimo Partito Comunista, anche si Italia si organizzò una Giornata dedicata alla condizione della donna. La stessa ONU, che già aveva proclamato il 1975 ‘Anno internazionale delle donne‘, dal 1999 ha voluto fissato un’ulteriore Giornata internazionale, dedicata allo specifico scopo dell’eliminazione della violenza sulle donne: il 25 novembre. Eh sì, proprio quell’ONU ultimamente molto efficiente nel riempire il calendario di Giornate dedicate a questo o quell’altro soggetto o tema, quanto totalmente inutile ogniqualvolta una spada di Damocle incombe o, peggio, cade sul mondo. Del resto è stata proprio l’ONU a istituire una ‘Giornata mondiale dei diritti umani‘, al cui rispetto però nessun Paese membro sembra essere (mai stato) tenuto (con qualche eccezione decisa da chi nelle Nazioni Unite conta molto più degli altri).

Tuttavia va riconosciuto che l’8 marzo, qui da noi, patria indiscussa del cicalìo verbale, ancora oggi riesce, seppure faticosamente, a sottrarsi a due insidie molto pericolose quanto banalizzanti: (ovviamente) la retorica ed il consumismo. Eh sì perchè il rischio di trasformare questa ricorrenza, piena di significato e di tematiche degne almeno (sic!) di grande attenzione, in un banalissimo rito della mimosa e della pizzata tra amiche, è sempre dietro l’angolo. E lo è ancor di più in questo momento, in cui gli spazi di libera partecipazione ed i momenti di spontaneo confronto si stanno visibilmente riducendo, con il silenzioso, forse distratto assenso degli stessi cittadini, che, dopo qualche decennio di diffuso attivismo sociale e politico, si stanno, nuovamente ed in numero sempre crescente, convertendo a quel miracolismo demiurgico, dei cui disastrosi portati ci si è troppo in fretta dimenticati o sbarazzati.
Prendiamo ad esempio che ne è stato de ‘Sa Die de sa Sardigna‘, il 28 aprile. Fu voluta da un’altra istituzione figlia, come l’ONU, delle grandi illusioni e degli ingenui vagheggiamenti post-bellici qual è la Regione Autonoma della Sardegna, che la istituì con la LR 44/1993. L’intento forse era quello di fare dei Vespri Sardi del 1794 il simbolo di una rinnovato orgoglio nazionale a sostegno di quella primavera che, seppure dopo il grande fallimento della Giunta sardo-progressista di Mario Melis, ancora molti consideravano possibile. L’esito invece è stato il solito scivolamento nella peggiore pantomima retorico-istituzionale, a braccetto con lo scadimento del dibattito politico isolano e con il distacco ormai evidente tra la stessa politica e una importante fetta della società sarda, fiaccata dalla crisi ma anche stanca dell’inconcludenza dei suoi rappresentanti.

Eppure, così come l’8 marzo, anche il 28 aprile potrebbe essere una cucina di ottimi piatti, se soltanto si trovasse la generosa e disinteressata disponibilità di bravi chef. Magari nucleo comune di queste due ricorrenze potrebbe diventare un tema culturale sì fondamentale e sì negletto: il rispetto e l’educazione al rispetto – per/verso le persone, in quanto tali, e per/verso i popoli, in quanto tali, anche se non sono diventati Stati –. Certamente ne guadagneremo tutti, persino gli insularisti!