Nell’agenda politica italiana 2023 sono ricomparse alcune proposte riformatrici che riguardano la struttura istituzionale e amministrativa di questo sempre più stanco Paese. Nello specifico si parla, con crescente … vivacità, della cosiddetta “autonomia differenziata” e dell’ennesima riproposizione presidenzialista, che, periodicamente – soprattutto quando al governo ci vanno le destre – appare come il coniglio dal cilindro del mago di turno. Se di quest’ultima s’è ancora capito ben poco tra salvaguardia del Colle, premierato forte, sindaco d’Italia e capo condomino, l’autonomia differenziata invece è stata messa nero su b(i)anco nella cosiddetta bozza Calderoli (sì proprio lui, quello del ‘Porcellum’ poi sostituito dal ‘Rosatellum’, per la serie dalla padella alla brace). In realtà la storia di questa riforma parte da lontano, esattamente dal “nuovo” Titolo V della Costituzione (artt. 114 – 133), che il Centrosinistra – in carica c’era il governo Amato II – riscrisse e approvò, trovando conferma da parte del popolo italiano nel successivo referendum (in realtà a votarlo fu appena un terzo degli aventi diritto!!!). L’obiettivo era quello di realizzare una sorta di ampio decentramento di poteri e competenze, equivocamente definito anche “federalismo”, senza mutare la sostanza della Costituzione. Ovviamente una simile soluzione ambigua ed equivoca in realtà di “federale” finora ha portato ben poco. Ma tant’è, siamo in Italia, il paese dove cambiare è sempre tabù.
Tuttavia, sulla base dell’art. 116 c. 3, che prevede l’attribuzione alle regioni, mediante legge ordinaria, di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia sulle materie indicate dall’art. 117, in anni recenti alcune regioni ordinarie, Emilia, Lombardia e Veneto – le ultime due anche dopo un passaggio referendario – hanno attivato con convinzione la procedura per ottenere queste nuove attribuzioni. Per farla breve, da qui è iniziato l’iter che ci ha condotto alla proposta di legge del ministro leghista.
E di questa proposta s’é parlato venerdì sera ad Oristano, in una tavola rotonda, nell’ambito dell’edizione 2023 del ‘Festival dello sviluppo sostenibile’, organizzato da Legacoop. Lo hanno fatto una serie di relatori rappresentanti ciò che io spesso definisco “lato sensu” il “livello influenzante della cosiddetta società civile”, cioè quel mondo che, comunque, nelle famose stanze dei piani nobili, entra (e non dalle scale antincendio). Infatti, oltre al giovane assessore regionale all’ambiente Marco Porcu, c’erano docenti universitari come il costituzionalista Omar Chessa, Giuseppe Pisauro (Scienza delle finanze alla Sapienza), e l’ex rettrice di Unica, la farmacologa Maria Del Zompo; sindacalisti come Francesca Ticca (segretaria regionale UIL); esponenti di punta del mondo cooperativo come Pierluigi Stefanini, presidente dell’Alleanza Italiana Sviluppo Sostenibile, ma, soprattutto del Gruppo Unipol, e, ovviamente il presidente di Legacoop Simone Gamberini. E c’era l’eterno Giacomo Spissu, già segretario regionale CGIL, assessore comunale e sindaco di Sassari, consigliere regionale e presidente del Consiglio regionale ai tempi di Soru, attualmente presidente della Fondazione di Sardegna. A coordinare la discussione è stato chiamato il giornalista Giuseppe Meloni, mentre il presidente regionale di Legacoop, Claudio Atzori, ha fatto gli onori di casa e il vice-sindaco Luca Faedda ha portato i saluti dell’amministrazione comunale.
Senza dubbio le intenzioni degli organizzatori erano lodevoli, perché davvero questa avrebbe potuto essere un importante momento di informazione, di riflessione e, magari, di confronto su un tema molto importante e delicato. Ho scritto “avrebbe potuto essere” perché, almeno a mio parere, ciò che ne è venuto fuori è stato un dibattito piuttosto dispersivo e quindi confuso. La troppa carne al fuoco – dagli abusati leitmotiv come quello dello Statuto “non ben sfruttato”; alle autocommiserazioni pauperistiche, per cui, secondo qualcuno, la “specialità” sarda ci sarebbe stata concessa per la nostra povertà; dalla necessità di approcci ai problemi complessi attraverso “strategie multilivello” alle scritture inverse della riforma Calderoli, in cui la fine, cioè i LEP-Livelli Essenziali delle Prestazioni, avrebbe dovuto essere l’inizio; fino all’infinita vertenza sardo-romana delle “entrate” (e le differenze in questa materia tra Sardegna e Sicilia) e all’immancabile e inevitabile insularità -, proprio perché era troppa, è stata cotta troppo poco.
In generale, se, come è stato sottolineato da diversi intervenuti, il grande limite di tutta questa operazione calderoliana è proprio ciò che l’ha avviata, cioè il residuo fiscale, cioè la differenza tra tutte le entrate (fiscali ecc.) provenienti da un determinato territorio e incamerate dalle Pubbliche Amministrazioni statali e locali, e invece le risorse “restituite” in opere, beni e servizi allo stesso territorio; allora il grande limite delle attuali “discussioni sarde” in proposito è proprio il tritacoglionarsi attorno al residuo fiscale ed alle disquisizioni accademiche sull’eguaglianza – mai utopia fu così utopica -, ai principi della Costituzione, al fondo perequativo (che non c’è) ecc. ecc. Perché dico questo? Intanto perché questa di Calderoli non è affatto una grande riforma della struttura politico-amministrativa dello Stato, ma, in soldoni – espressione appropriata! – una diversa divisione della torta, ovviamente a favore di chi già ha di più. Infatti Emilia, Lombardia e Veneto, che hanno un residuo fiscale negativo, vogliono aver (almeno?) la possibilità – dicono loro – di riequilibrare le cose gestendo direttamente e, soprattutto, a minor costo per la collettività, un servizio attualmente erogato dallo Stato centrale e quindi chiedono di trattenere/ricevere quanto quest’ultimo spende per lo stesso! Il risultato auspicato (?) sarebbe quello di avvicinare i centri di spesa ai cittadini e quindi di applicare il principio (?) del “vedo, pago e voto”, che, tra l’altro, darebbe a questi ultimi la possibilità di valutare direttamente la qualità e di poterla tradurre in consenso/dissenso elettorale. In realtà Emilia, Lombardia e Veneto ci vogliono guadagnare! E vogliono farlo utilizzando un argomento specioso, seducente quanto fuorviante: noi diamo molto più di quel che ci viene dato! Poverini! Ora solo a chi non vuol vedere, può sfuggire la diversa quantità e qualità dell’offerta universitaria, della sanità, dei trasporti, delle infrastrutture – fatte a spese di tutti gli italiani – e conseguentemente delle opportunità e prospettive ecc. ecc. che ci sono in Lombardia o in Veneto rispetto, che so, a Calabria o Sardegna. Poi, come ha sottolineato il professor Chessa, se si ragiona in termini di uguaglianza, l’attenzione si deve spostare sulla persona, sull’individuo. Allora, dati del 2019, le Amministrazioni centrali pubbliche hanno speso euro 9.317 per abitante della Lombardia, 9.865 per abitante di tutto il Centro-nord e 8.601 per abitante della Sardegna!!!
Ma, ripeto, il core della faccenda non deve essere questo! Per spiegarmi, prendo spunto proprio dall’appassionato intervento della professoressa Del Zompo. L’ex rettrice di Unica, muovendo dalla distinzione tra un tipo federalismo fiscale da lei definito “cooperativo” e un altro chiamato “concorrenziale”, ha parlato degli effetti già ben noti di quest’ultimo per quanto riguarda la distribuzione dei finanziamenti alle Università da parte del governo Berlusconi. Infatti i parametri allora adottati hanno premiato chi era già avanti, mentre gli Atenei che, per tutta una serie di problematiche economico-sociali, non erano ancora “competitivi” sono stati ulteriormente penalizzati, a prescindere dai progressi fatti. Tale situazione, prima della cassatura da parte della Suprema Corte, ha danneggiato soprattutto le Università sarde, nonostante le loro proteste! La colpa di tutto questo, secondo Del Zompo, è ovviamente del Governo di allora e del Minist(e)ro. Uhm! E la Regione? Dov’era la Regione Autonoma della Sardegna? Non ha potuto far niente!? Come mai? Non ha voluto o non ha potuto? E, se non ha potuto, che cavolo ce ne facciamo della sua famosa o famigerata “specialità”?
Cito l’art. 5 dello Statuto sardo: “Salva la competenza prevista nei due precedenti articoli, la Regione ha facoltà di adattare alle sue particolari esigenze le disposizioni delle leggi della Repubblica, emanando norme di integrazione e attuazione, sulle seguenti materie: a) istruzione di ogni ordine e grado, ordinamento degli studi; …”. Signori, queste sono le competenze della Regione nell’ambito dell’istruzione. Penso che sia patente il fatto che ben altri poteri la nostra Sardegna dovrebbe avere, in primis quello di poter sospendere sul proprio territorio l’applicazione di un provvedimento romano quando lo giudichi, fondatamente, lesivo dei diritti dei Sardi (l’attuale articolo 51 dello Statuto è troppo debole ed altrettanto limitato).
E così arriviamo al punto: i Sardi, la politica sarda, l’opinione pubblica sarda non devono scontrarsi sull’autonomia differenziata o sull’inserimento nella stessa di quella parolina magica, o, secondo altri, specchietto per le allodole, che è l’ “insularità”. No, i Sardi devono sfruttare quest’occasione, quasi insperata, per giungere finalmente ad un vero patto con Roma, che dia finalmente alla Sardegna gli strumenti operativi che le servono. Perché la Sardegna non avrà mai un ponte sullo Stretto (tutt’al più forse, un giorno molto lontano, un ponte sulle Bocche), ma è e sarà sempre lontana dall’Italia, il cui Stato, a sua volta e per tutta una serie di motivi, ha avuto, ha ed avrà sempre remore ad investire in Sardegna piuttosto che in Padania o nella stessa Campania. Infatti una ferrovia da Napoli può andare ad Amsterdam o a Budapest; da Oristano può andare a … Olbia!!! E così dicasi per strade, ponti, gallerie, ospedali, università ecc.: siamo pochi e separati, lontani dagli occhi e quindi dal cuore! Dunque occorre entrare nella logica che alla Sardegna, isola fisicamente lontana dal suo Stato, dobbiamo pensare prima di tutto noi Sardi, che ci viviamo!
Questo è anche l’unico modo per meglio tutelare, con i fatti, quell’uguaglianza dei cittadini sardi di cui la nostra politica ama infarcire i suoi retorici discorsi.