Non senza qualche titubanza, martedì scorso ho deciso di andare a vedere ‘Comandante‘, il film di De Angelis sulle vicende del Capitano Salvatore Tòdaro e del sommergibile ‘Cappellini’, durante l’autunno-inverno del 1940, fino all’affondamento – al largo di Madera – del mercantile belga ‘Kabalo’ ed al salvataggio del suo equipaggio. Atto quest’ultimo per il quale Tòdaro ed il ‘Cappellini’ sono passati alla storia.
Perché ho iniziato sottolineando “non senza qualche titubanza”? Innanzitutto perché m’ero fatto l’idea che fosse un “film di guerra”! E fare un buon “film di guerra”, almeno a mio modesto parere, è molto difficile in sé, persino quando si vuole rappresentare solo un particolare, specifico episodio. Infatti bisogna amalgamare bene molti ingredienti dentro una durata non eccessiva e in maniera tale da tenere sempre desta l’attenzione dello spettatore, senza “spararla grossa” e senza cadere in grossolane “sviste” o “papere” magari a causa di un budget troppo limitato rispetto alle ambizioni ed al progetto iniziale. Del resto pochissimi cineasti sono riusciti nell’impresa di tenere insieme dramma, tensione, azione, tragedia, spettacolo, riflessione, ironia, perfino grottesco, nelle loro personali letture/interpretazioni di quella brutta bestia che è la guerra. In genere, anche nei film più riusciti, alcuni aspetti sono stati privilegiati rispetto a o a scapito di altri, per cui ci si presenta un ampio ventaglio di “modi”, di “risultati” e quindi di modelli: da ‘Orizzonti di gloria‘, a ‘Uomini contro‘, da ‘Tutti a casa’ a ‘La grande guerra‘, da ‘La marcia su Roma‘ al ‘Federale‘, da ‘Apocalypse Now‘ a ‘Full metal jacket‘, da ‘La battaglia di Midway‘ a ‘Duello nel pacifico’, da ‘Il grande uno rosso‘ a ‘La sottile linea rossa‘, da ‘M.A.S.H.’ a ‘Scemo di guerra‘, da ‘We were soldiers’ ai diversi ‘Niente di nuovo sul fronte occidentale‘ ecc. ecc.
Perché, nello specifico, proprio il tema della guerra sottomarina ci ha regalato alcuni grandi film, tra cui quel ‘Das Boot‘ (in Italia ‘U-Boot 96‘, 1981), anch’esso sulle vicende (romanzate) di un sommergibile tedesco durante la Seconda guerra, che io ho particolarmente apprezzato, rivedendolo più volte. E l’ho apprezzato proprio perché il suo regista, Wolfang Petersen, che l’Azione ce l’aveva nel dna, è stato in grado di mettere efficacemente insieme realismo, tensione e spettacolarismo.
Perché il cinema italiano, dopo i decenni d’oro dal secondo dopoguerra agli Anni Settanta, è progressivamente finito in una interminabile, anemica stagnazione, in cui facevano e fanno difetto idee, mezzi, autori e interpreti, e, soprattutto, soldi! L’aver concentrato tutta o quasi l’attenzione e la produzione sulla commedia e sul cinema cosiddetto “autoriale”, raramente tale (!!!), ha ucciso il prodotto di genere, in cui invece si eccelleva e che aveva trasformato Cinecittà in una vera e fiorente industria con i peplum, gli spaghetti-western, i grandi gialli e thriller “all’italiana”, i poliziotteschi ecc., dandoci diversi cult-movie apprezzati in tutto il mondo, tanto da esser diventati punti di riferimento per molti cineasti stranieri.
Alla fine però l’ha avuta vinta la curiosità, sostenuta anche dal fatto che di De Angelis, una decina d’anni fa, avevo apprezzato il noir ‘Perez.‘, interpretato da Zingaretti; e corroborata da alcuni pareri positivi da parte di chi ‘Comandante‘ lo aveva già visto.
Purtroppo dalla visione sono uscito non proprio soddisfatto. Nel senso che, come ho accennato all’inizio, mi aspettavo qualcosa di diverso!
Intanto il film, sia dal punto di vista delle scene d’azione sia per quanto riguarda la tensione, è debole, non ti “prende”. Le scene di combattimento sono poche e poco incisive. Quelle dove emozione e tensione potevano diventare davvero alte, come l’attraversamento di Gibilterra – in mezzo a una selva di mine, una delle quali “avvinghia” il sommergibile senza esplodere (mah!) – , mi hanno invece lasciato quasi indifferente (molto più lungo e “intenso” l’attraversamento di Gibilterra da parte dell’U 96). Si sfiora addirittura l’assurdo quando il ‘Comandante Cappellini’ viene magnanimamente fatto passare da un cacciatorpediniere inglese, dopo che Todaro aveva spiegato, con un messaggio radio, al comandante nemico, la sua particolare situazione (trasferimento di naufraghi a terra)!
Ma anche la vita a bordo – siamo pur sempre dentro un sommergibile, ambiente difficile, angusto, senza privacy e perciò foriero di facili conflitti proprio tra i membri dell’equipaggio -, a parte una disputa religiosa tra due marinai e il tentativo di sabotaggio – addirittura alcuni cavi strappati!!! – per mano di due belgi antifascisti (con tanto di punizione “scolastica” dei rei), appare tranquilla, i rapporti asettici, lo stesso ambiente insolitamente pulito e ordinato – anche in questo ‘Das Boot’ sembra molto più realistico – come se si fosse in un sottomarino dei giorni nostri. E’ noto che a quei tempi in Italia tutto funzionava bene, i treni arrivavano in orario, i fuorilegge erano tutti dentro o fuggiti all’estero ecc. ecc. Ma non esageriamo!
Il film è incentrato sulla figura carismatica di Tòdaro, a cui ha dato corpo e voce Favino. Di questo eccellente attore romano, forse il migliore dell’attuale panorama italiano, per quanto riguarda il cinema di guerra avevo apprezzato la misurata interpretazione del sergente Rizzo in ‘El Alamein – Linea di fuoco‘, un film che, nonostante un budget limitato, secondo me ha colto perfettamente il dramma dei nostri soldati in Africa settentrionale (e in tutta quella disgraziata guerra): la estrema carenza di armi, di mezzi, di equipaggiamento, di cibo, di acqua, … insomma di tutto, in evidente contrasto con quanto la propaganda fascista aveva riversato per anni e anni sulla gente e sulle nuove generazioni (in quel film impersonate dal volontario Serra-Paolo Briguglio), inconsapevoli vittime.
Qui Favino, forse un po’ troppo avanti con gli anni per interpretare Todaro, all’epoca della vicenda trentenne, cerca di mostrare le diverse sfumature di una personalità poliedrica e complessa come quella del “Comandante”. Todaro è stato un professionista della guerra, un militare tutto d’un pezzo, a cui piaceva il mestiere delle armi, tanto da rimanere in servizio nonostante le serie conseguenze di un gravissimo incidente durante il lancio sperimentale di un siluro da un idro SIAI S 55, di cui v’è una sequenza all’inizio del film. Conseguenze fisiche e connesse pesanti sofferenze che deve continuamente patire nonostante il busto che indossa.
Ma Tòdaro-Favino, nel film, è anche altro. Per esempio è un uomo appassionato di oriente – pratica lo yoga a fini terapeutici – e anche presago e dotato di capacità divinatorie (il marinaio sardo che, al momento della partenza da La Spezia, senza motivo lascia a terra, e, però, tre giorni dopo viene operato d’urgenza all’intestino, salvandosi così da morte certa). Ed è un convinto patriota, che, a modo suo, parla con grande orgoglio della sua Italia! E che darà la vita per l’Italia!
Dicevo che Favino-Tòdaro fa il 70 % del film. Il resto è lasciato all’interpretazione del suo “secondo”, Marcon, che però non mi risulta essere stato ufficiale del ‘Cappellini’, ad alcune scene corali dentro il sommergibile, a quelle – poche – con la moglie (Silvia D’Amico), e alle lettere che Todaro le manda, alla cucina di Gigino, e ai pochi momenti d’azione …
Dal punto di vista storico, m’è parso che De Angelis e Veronesi abbiano utilizzato anche episodi relativi all’altro affondamento con salvataggio dell’equipaggio fatto dal ‘Cappellini’ un paio di mesi dopo, e aggiunto qua e là scene di fantasia, anche se con poca verosimiglianza storica: su tutte quella citata prima, del cacciatorpediniere inglese che, informato della particolare situazione, lascia andare la nostra unità.
Invece la ricostruzione fatta ad hoc del sommergibile in scala 1:1 e quella del suo armamento, sono, forse, il punto forte di questo film, a parte il forse eccessivo fumo da locomotiva a vapore, che talvolta s’è visto uscire dal battello. Ma, in questo caso, non essendo un esperto, non so dire se ciò fosse o meno un problema reale delle nostre unità o, almeno, di questa specifica classe.
Non mi sono piaciute le scene di combattimento, in particolare l’attacco aereo peraltro condotto da due caccia britannici, forse addirittura Spitfire, che, nel 1940, dubito essere stati impiegati in siffatti ruoli, per di più in quelle zone dell’Atlantico (i Seafire non erano ancora disponibili)! Due aerei comparsi dal nulla, sorprendendo così i nostri marinai, che pure avrebbero dovuto stare ben attenti, dal momento che il battello navigava in superficie! Mah!
Non voglio commentare l’itaglianame degli stereotipi sdolcinati del cuoco che, accompagnandosi con il mandolino, canta ‘O surdato ‘nnamurato‘ – un riferimento voluto a ‘La sciantosa‘ con Anna Magnani e Ranieri? – né l’altisonante frase ”Siamo italiani …” (brava gente per antonomasia), che tanto ha fatto discutere, e neppure le patate fritte alla belga, per la serie “almeno a tavola volemose tutti bene”. Fanno parte della nostra stantia retorica, a cui, evidentemente, occorre sempre pagare pegno.
Per un giudizio più solido sul film, mi manca il confronto con ‘La grande speranza‘, pellicola del 1954 di Duilio Coletti, in cui Todaro aveva le fattezze di Renato Baldini, attore all’epoca abbastanza importante e famoso quanto oggi dimenticato, e in cui compare anche la mitica Lois Maxwell, futura Miss Moneypenny, semplicemente perché non ho mai visto questa pellicola, così come non ho mai visto ‘Alfa tau‘ altro film italiano di guerra sottomarina, girato durante la guerra. Invece tempo fa, ho avuto occasione di vedere ‘Uomini sul fondo‘ di De Robertis, a cui collaborarono due futuri grandi registi: Roberto Rossellini (assistente alla regia) e Mario Bava (fotografia). Ho pensato proprio a questo film per la scena del sacrificio volontario di un marinaio che permette al battello e al suo equipaggio di salvarsi, presente (la mina di Gibilterra) anche in ‘Comandante‘.
In conclusione, ‘Comandante‘ è interessante dal punto di vista storico, perché mostra frammenti di quel gigantesco e tragico puzzle, che fu la II Guerra: la nostra guerra sottomarina, la guerra ai convogli, un conflitto senza confini, senza limiti neppure morali. Un enorme, sterminato campo di battaglia, scurissimo, dove, di quando in quando, fa capolino un po’ di umanità.
Dal punto di vista cinematografico, invece, si sarebbe potuto fare non di più, direi meglio.