Interessante proposta culturale quella che, lunedì sera, ha visto gli iscritti alla locale UniTre, ripercorrere i fatidici passi che, quasi due secoli fa, nelle vie del centro, oggi storico, di Oristano una giovane nobildonna, Geltrude Paderi, fece nell’audace tentativo, poi riuscito non senza però gravi conseguenze, di coronare il suo sogno d’amore evitando nel contempo di prendere quei voti religiosi a cui il padre l’aveva destinata per ragioni patrimoniali ed ereditarie. A guidare il numeroso gruppo – almeno una cinquantina – di appassionati sono stati due preparatissimi cultori della storia oristanese: Gigi Piredda e Andrea Sanna. Proprio al Piredda si deve, dopo lunghe ricerche d’archivio, la puntuale e documentata ricostruzione di tale, per molti aspetti del periodo, insolita ma anche drammatica vicenda, con il saggio ‘Più del blasone poté l’amor. Storia vera di un matrimonio segreto nella Oristano dell’Ottocento‘.
La prima tappa di questo tour storico è stata ovviamente il Palazzo dei Paderi, o Paderi – Areso, che da secoli si affaccia maestoso su piazza Eleonora, occupando un’ampia porzione dell’isolato racchiuso tra la stessa succitata piazza, via Carmine, vico Arcais, vico La Marmora e piazza Pietro Martini. La storia dei suoi proprietari in Sardegna ed in particolare ad Oristano, è stata esposta da Andrea Sanna.
Giunti a Cagliari nell’epoca del primo consolidamento della presenza catalano-aragonese nell’isola, i Paderi erano “mercaders/mercadores“, attivi però soprattutto nel settore degli appalti pubblici.
Per quanto riguarda Oristano, le più antiche attestazioni di una loro presenza risalgono all’epoca immediatamente post-marchionale, allorché chi aveva contribuito alla vittoriosa battaglia di Macomer del 1478, venne ricompensato con terre, appalti ed incarichi (in questo caso il ricco appalto delle peschiere). Da allora e fino alla loro estinzione i Paderi divennero una delle famiglie più ricche, importanti ed influenti della città, imparentandosi con tutti gli altri casati arborensi, ampliando i loro possessi, e inserendo costantemente loro membri sia nei più alti livelli dell’amministrazione cittadina, inclusa la carica di Veguer Real, sia in quelli ecclesiastici, come canonici del Duomo, tanto da istituire un proprio canonicato ereditario, sia nell’ambito delle forze armate.
Salvatisi dall’attacco francese del 1637 e, soprattutto, dalla letalissima epidemia di peste del 1652, che decimò gli Oristanesi, i Paderi mantennero ed anzi rafforzarono il loro ruolo in città anche sotto i nuovi “padroni” Savoia, al cui servizio alcuni di loro si segnalarono per devozione e capacità. Furono proprio i futuri regnanti d’Italia, all’inizio dell’Ottocento, a concedere a don Sisinnio Paderi l’onorificenza della Croce dei SS Maurizio e Lazzaro e, soprattutto, l’ambito titolo nobiliare di Conte di S. Anna (un esteso oliveto in territorio di Donigala).
La stessa evoluzione in altezza ed estensione del Palazzo Paderi, che tra l’altro quasi fronteggia quello che per tanto tempo è stato il Palazzo di città (attuale Ufficio tecnico), mostra la progressivamente crescente forza economica e ed il prestigio sociale di questo casato. Nel piano terra le strutture murarie in mattoni cotti, blocchi di arenaria, basalto e la tipologia di archi e volte rimandano senz’altro ad una primitiva fase giudicale. Man mano che si sale si evidenziano materiali e tecniche costruttive delle epoche successive. Tra l’altro l’edificio era dotato di numerosi e ampi magazzini e di un grande pozzo-cisterna, che consentiva di dare l’acqua anche ai poveri. Le stalle erano ubicate in quell’edificio all’angolo con via Carmine, anch’esso noto come Palazzo Paderi, e diventato tale quando un altro dei Paderi lo acquisì e trasformò negli anni 1799-1802. In seguito passato all’Arcivescovado, poi incettato dallo Stato a motivo dell’eversione per legge dell’asse ecclesiastico dopo l’Unità e del sorgere della Questione romana, indemaniato, è stato infine trasferito in parte al Comune e in una parte maggiore al patrimonio di quella che oggi è l’ASL. Si è ancora in attesa di una definizione dell’accordo di permuta tra questi due enti risalente ormai allo scorso decennio.
A questo punto Gigi Piredda ha raccontato per filo e per segno la complicata e contrastata storia d’amore di Geltrude Paderi, quale è emersa in particolare dal reperimento, nell’Archivio di Stato, da parte dello stesso Piredda di un testamento del 1842 – ma ancora sigillato – della nobildonna, che ha significativamente implementato le già numerose carte disponibili. Siamo dunque nel 1841. Don Raimondo Paderi, intenzionato a mantenere intatto il patrimonio di famiglia trasferendolo al solo primogenito Maurizio, militare di carriera, aveva presentato alle Suore Cappuccine formale domanda di ingresso come novizia per una delle sue due figlie, la trentaquattrenne Geltrude. Quest’ultima però era già segretamente fidanzata con Andrea Deffenu, figlio di un commerciante di tessuti, e pure di tredici anni più giovane. Insomma un partito tutt’altro che ideale per una nobile non più giovanissima. Ma, soprattutto, Geltrude non aveva nessuna voglia di finire i suoi giorni in regime di claustrazione. Perciò, d’accordo con il fidanzato, escogitò un piano per sfuggire a quel destino. Il piano aveva come obiettivo quello di fare una “coia a cua“, un matrimonio segreto. L’esecuzione del piano scattò la mattina del 12 maggio 1841, non appena don Raimondo ricevette la conferma dell’accoglimento della richiesta da parte dell’Ordine delle Cappuccine. Geltrude con un pretesto uscì di casa per recarsi nella vicina dimora dell’allora vicario diocesano, Antonio Uda, originario di Milis, già parroco a Seneghe e futuro vescovo di Bosa. Intanto il fidanzato di Geltrude aveva agganciato due suoi ex compagni di seminario, che avrebbero svolto il ruolo di inconsapevoli ma pur sempre validi testimoni del matrimonio. Introdottisi con uno stratagemma nell’abitazione dell’Uda i due sposi riescono a recitare la formula matrimoniale di fronte allo sbalordito sacerdote ed ai due ignari testimoni. Ciò rese il matrimonio valido a tutti gli effetti, anche se l’Uda fece subito rinchiudere i due inscienti testimoni e, come atto dovuto, denunciò la coppia per mancate pubblicazioni. Proprio al rapporto del sacerdote milese si deve la dettagliata conoscenza di ciò che avvenne 184 anni fa in quella “radiosa” giornata di maggio.
Venuto a conoscenza dell’accaduto don Raimondo denunciò subito la figlia alle autorità per abbandono del tetto paterno. Perciò i due novelli sposi trascorsero la loro prima notte di nozze – e non solo quella! – ben separati: lei dalle Cappuccine, dove nel frattempo si era rifugiata godendo del diritto di asilo, e lui probabilmente arrestato. Geltrude e Andrea furono poi condannati ad un anno di reclusione, che lei scontò in convento, lui prima a San Pancrazio a Cagliari e poi nell’angusto e pessimo carcere di Oristano.
La coppia ebbe tre figli, di cui però solo uno riuscì a sopravvivere ai genitori: Alfonso Deffenu (1845 – 1880). Geltrude poi morì nel 1853, senza aver più rimesso piede nell’odiato palazzo avito ma non prima di aver recuperato la sua parte di eredità materna. Andrea Deffenu, risposatosi subito dopo la scomparsa di Geltrude, e anche per questo motivo odiatissimo dal figlio superstite, morì intorno al 1860.
Alfonso ereditò tutto l’ingente patrimonio di famiglia, che di fatto, come Paderi – Areso si era già estinta.
Anche i ricchi piangevano!



