Proseguono, presso l’accogliente ed attivissimo Museo Diocesano, gli appuntamenti dedicati alla storia di Oristano nei suoi vari aspetti. Così, venerdì sera, l’archivista dott. Raffaele Cau, che di storia locale si occupa ormai da tanti anni, ha affrontato il tema dei luoghi di sepoltura cittadini dalle origini ai tempi moderni. Un excursus il suo che ha permesso al numeroso pubblico presente di recuperare memoria di tanti luoghi, di cui, in molti casi, ignoriamo le precedenti destinazioni d’uso pur passandoci spesso davanti o anche sopra.
“Le fonti disponibili – ha premesso Cau – sono soprattutto archivistiche, alle quali si aggiungono poche testimonianze archeologiche e, ovviamente, le residue evidenze visive (lapidi, epigrafi ecc.), con alcune delle quali è stato anche possibile incrociare i dati. Tra i documenti risultano ovviamente fondamentali gli atti di morte, che spesso ci forniscono tutta una serie di informazioni sul defunto, tra cui, quando presente, anche il gremio di appartenenza e, soprattutto, il luogo di sepoltura. Purtroppo molti di questi archivi non sono aperti al pubblico o, comunque, sono accessibili solo su richiesta“. Cau, oltre ai ben noti Archivio Storico Diocesano e Comunale, ha citato anche l’Archivio della Cattedrale, quello Capitolare (che riguarda i canonici del Capitolo Metropolitano), quello della Sacrestia del Capitolo, quello del Seminario, quello conventuale di San Francesco e l’archivio di San Sebastiano.
Iniziando questo percorso storico dall’età romana, “quella più indietro nel tempo per cui esiste qualche precisa testimonianza“, lo studioso ha ricordato che “le indagini archeologiche hanno portato alla luce piccole necropoli o singole sepolture sempre e solo di epoca imperiale nelle aree di tre chiese extraurbane: San Giovanni dei Fiori, San Martino extramuros e la scomparsa San Nicolò (o San Nicola) di Gurgo. Tra l’altro proprio da San Martino proviene l’epigrafe della liberta Nigella, oggi conservata nel Convento dei Cappuccini“.
Risale invece ad epoca bizantina la prima attestazione di Oristano in una fonte letteraria. Si tratta della ‘Descriptio orbis Romani‘ redatta dal geografo Giorgio Ciprio al principiare del VII sec. C’è poi la data tradizionale del 1070 d. Cr., anno in cui la capitale giudicale sarebbe stata trasferita da Tharros alla molto più sicura Oristano. Nel 1131, infine, è citata per la prima volta la Cattedrale di Santa Maria.
Nel periodo bizantino, a differenza di quello romano, “si seppelliva un po’ dovunque – ha sottolineato Cau – spesso riutilizzando luoghi e strutture preesistenti“. Sicuramente l’area del Duomo doveva essere quella più utilizzata. E infatti proprio qui, in occasione del rifacimento del suo sagrato, sono state rinvenute e poi (1987) sottoposte ad indagine archeologica da parte di Salvatore Sebis, 5 tombe, 3 a cassone e 2 a fossa. “Invece nessuno scavo archeologico ha mai interessato la piazza antistante alla facciata principale della Cattedrale, dove pure si sa che c’è una grande cisterna“.
Per ciò che riguarda il periodo basso-medievale/giudicale, ciò che è rimasto visibile è ben poco: in pratica l’iscrizione funeraria della giudicessa “Constancia de Sa Luciis” (1348, Chiesa di Santa Chiara) e la lastra tombale del canonico Filippo Mameli (1349, in Cattedrale). A queste si deve aggiungere l’anonimo sarcofago giudicale, rinvenuto dall’Addis nel 1950 e attualmente custodito nella sacrestia della tardomedievale Parrocchia di S. Maria Maddalena a Tramatza – dove prima era utilizzato come lavabo! – e che dovrebbe aver ospitato le spoglie mortali della piccola Giovanna, figlia dello “sfortunato” Giudice Giovanni/Chiano, nata poco dopo l’esecuzione del padre (inizio XIV secolo).
A proposito di monumenti funebri, Cau ha fatto riferimento anche alla statua marmorea trecentesca di un Santo Vescovo, identificato spesso con San Basilio, conservata in San Francesco e attribuita a Nino Pisano, che invece potrebbe essere parte proprio di un monumento funebre di qualche arcivescovo arborense.
La scomparsa delle sepolture sia dei sovrani d’Arborea, di cui si sa che si trovavano in Cattedrale, esattamente nella cappella di San Bartolomeo, sia dei coevi arcivescovi è quasi sicuramente dovuta ai grandi lavori di ristrutturazione e rifacimento a cui la Cattedrale stessa venne sottoposta nei primi decenni del Settecento. Lavori che, tra le altre cose, portarono ad un innalzamento del pavimento almeno di un paio di metri.
“Molto meglio informati – ha proseguito Cau – lo siamo per quanto riguarda i secoli dal Cinquecento all’Ottocento, per i quali disponiamo di abbondante e varia documentazione“. Cau ha citato in particolare i ‘Quinque Libri‘, registri parrocchiali relativi a battesimi, cresime, matrimoni e defunti, di San Sebastiano (più antico) e della Cattedrale. Questi ultimi “partono” proprio dal 1652, l’anno di inizio della terribile “peste barocca“, che, solo ad Oristano, in pochi mesi, fece tra città e circondario almeno 2600 vittime (così almeno riporta un graffito trovato un secolo fa, nella Chiesa di San Martino). Meno di trent’anni dopo sulla Sardegna si abbatté, dopo un’interminabile siccità, anche la carestia, che non risparmiò Oristano, mietendo centinaia di vittime.
Questi nefasti eventi costrinsero le autorità ecclesiastiche a utilizzare tutti gli spazi esistenti, salvaguardando comunque una qualche forma di rispetto per i defunti. Così gli esponenti delle classi privilegiate e più abbienti continuarono ad essere sepolti nelle chiese, in particolare in Duomo, anche se probabilmente i tempi di permanenza dei corpi dovettero necessariamente essere ridotti. Per tutti gli altri si ricorse alle fosse comuni.
Cau si è quindi soffermato sullo jus sepeliendi, acquisito sia da diverse importanti famiglie locali (Cotza, Sanna, Piras, Nocco, gli stessi Paderi Areso/u), sia dal Gremio dei falegnami, mastri d’ascia e artisti (cappella di san Giuseppe in Cattedrale), che lo ottenne nel 1642, con una successiva riconferma settentesca.
In Cattedrale le sepolture sono attestate ininterrottamente fino all’Ottocento, e, per quanto riguarda gli arcivescovi, fino al 1947, con alcune traslazioni piuttosto “travagliate”. Lo studioso ha citato in particolare la vicenda di mons. Malingri (seconda metà Settecento), la cui salma imbalsamata riposava a Laconi, e quella di mons. Bua (prima metà Ottocento). Quest’ultimo che, oltre all’arcidiocesi arborense resse fino alla morte (1840) anche la diocesi di Nuoro-Galtellì, a seguito del forte legame creatosi proprio con la comunità nuorese (lo stemma del Comune riproduce quello del prelato, con il bue, il sole, e i monti), ed essendo deceduto nel capoluogo barbaricino, venne inumato con tutti gli onori nella locale chiesa della Purissima. Ciò sollevò la veemente reazione oristanese, per cui la Santa Sede ordinò il trasferimento della sua salma in Duomo. Anche Mons. Soggiu, dapprima sepolto nel cimitero comunale, dopo alcuni decenni venne portato in Duomo (cappella di San Michele).
La parte della chiesa deputata all’inumazione di prelati e canonici è la cripta sotto il presbiterio, ma alcuni arcivescovi (Nin, Cogoni ecc.) optarono per le cappelle. A questo proposito anche l’arcivescovo emerito Ignazio Sanna ha indicato come luogo di sepoltura il nostro Duomo.
Per quanto riguarda le altre chiese cittadine, non quelle campestri, dove non era consentita l’inumazione, si sa che accolsero defunti la citata San Sebastiano (fino al 1829), Santa Maria Maddalena, lo Spirito Santo, San Francesco, San Domenico, l’Immacolata, Santa Chiara (ma non le monache), San Vincenzo (Scolopi), San Mauro Abate, San Lazzaro, San Martino, il Carmine, San Saturnino (solo in occasione della peste). Invece le aree cimiteriali cittadine erano situate all’esterno della stessa Cattedrale, attorno a San Sebastiano e nell’area della Chiesa dello Spirito Santo.
Tutto questo più o meno fino al 15 luglio 1840, quando, finalmente, a seguito delle ripetute pressioni delle autorità sabaude e grazie all’intervento, fermo ed energico, dello stesso Mons. Bua, che superò ogni residua resistenza, dopo qualche anno di (lenti) lavori fu aperto il Cimitero di San Pietro. Il primo defunto a varcare quella fatidica soglia fu una donna, la signora Maria Atzori.